FUORI DALLA LIBIA $CIACALLI D'OCCIDENTE!

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LokiTorino
view post Posted on 1/4/2011, 10:21 by: LokiTorino




LA RISOLUZIONE ONU 1973 ED IL RITORNO (CON VARIAZIONI SUL TEMA)
DELLA “POLITICA DELLE CANNONIERE” (di E. RICCIARDI)


1.0. La risoluzione ONU 1973 poggia sulla c.d. teoria della responsabilità di
proteggere (responsibility to protect), elaborazione della dottrina
internazionalistica nata negli anni ’90 in ambienti accademici statunitensi ed
anglosassoni (e ciò a proposito, di nuovo, della funzione subordinata del diritto
rispetto a ben più decisive dinamiche, di carattere storico e politico, a questo
irriducibili), il cui assunto fondamentale consiste nel riconoscere a carico di ogni
Stato la responsabilità di proteggere le sue popolazioni, con la conseguenza che,
ove i mezzi pacifici risultino inadeguati e le autorità nazionali non offrano
protezione, può essere avviata un'azione collettiva, attraverso il Consiglio di
sicurezza, in conformità alla Carta dell'ONU, in collaborazione con le
organizzazioni regionali.
Da tali ambienti, questa teoria è poi approdata, attraverso un’opera di
propaganda assai efficace, sino all’Assemblea Generale dell’ONU, che, difatti,
nel 2005 ne ha fatta propria la formulazione precisamente in quei termini sopra
riportati. Tuttavia, è importante sottolineare che questo “riconoscimento” da parte
dell’organo assembleare dell’ONU non ha affatto comportato una modifica dello
Statuto dell’ONU o dei principi consuetudinari internazionali e dunque
un’innovazione del corrispondente diritto. Del resto, è la stessa riportata
formulazione a rimandare chiaramente alla necessità, affinché un’azione militare
collettiva possa avere luogo in forza del principio della responsabilità di
proteggere, ad una decisione del Consiglio di Sicurezza, che è organo non
preposto alla creazione di diritto internazionale, in conformità allo Statuto
dell’ONU.
Ciò significa che la violazione da parte di uno Stato (inteso come apparato
di governo) del dovere di proteggere la sua popolazione non potrà mai
comportare, di per sé ed in quanto tale, il ricorso all’intervento armato deciso dal
Consiglio di Sicurezza, ma lo potrà soltanto se e nella misura in cui questa
violazione lederà o costituirà una minaccia al mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale. Proprio perché soltanto quest’ultime circostanze
legittimano un intervento armato in base all’art. 39 dello Statuto dell’ONU (“Il
Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una
violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o
decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per
mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”).
Va tuttavia aggiunto che, nel 2009, il Segretario Generale dell’ONU,
nell’approvare il rapporto Implementing the responsabilità to protect,
puntualizzando che “La responsabilità di proteggere si applica, sino a che gli
stati membri [dell'ONU] decidano diversamente, solo a quattro crimini e illeciti
specificati: genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l'umanità”,
sembra circoscrivere il principio, ma in realtà a mio avviso finisce con il fornire
l’abbrivio (e l’alibi) al Consiglio di Sicurezza per considerare i citati “quattro
2
crimini” quali altrettante nuove fattispecie che di per sé autorizzerebbero
l’intervento armato contro uno Stato. Ciò in quanto proprio la circostanza che
dette fattispecie siano state specificate ben può essere ritenuta dai fautori di
quest’orientamento un’idonea garanzia contro l’eccessiva vaghezza della formula
del “dovere di proteggere la popolazione”, la cui adozione in effetti avrebbe
incontrato ostacoli insormontabili opposti dalla maggioranza degli Stati.
1.1. Dunque, la risoluzione 1973 si fonda (ma, come si vedrà, in modo
ambiguo) sul dovere di protezione. È questo che ha dettato l’unica vera finalità
della stessa. Difatti, anche la c.d. nofly
zone (regolata ai punti 612
della
risoluzione) non costituisce affatto, a ben vedere, e come invece affermato da
pressoché quasi tutti gli osservatori (probabilmente perché doveva essere
l’aspetto da propagandare in misura maggiore, onde dimostrare che si era
intervenuti perché “Gheddafi ha usato i jet militari contro i civili che
manifestavano”), un obiettivo che si affiancherebbe all’altro obiettivo della
protezione dei civili. In realtà, i due elementi si trovano su due piani diversi,
giacché la prima è soltanto un mezzo, esattamente come lo sono “tutte [quel]le
misure necessarie” (v. punto 4 della risoluzione), per conseguire l’altro. L’unica
particolarità di tale mezzo, rispetto all’insieme generale di “tutte le misure
necessarie”, è quella, appunto, di essere stato esplicitamente descritto e
previsto; e tuttavia, anche se non lo fosse stato, sarebbe stato egualmente
utilizzabile proprio ricorrendo alla previsione generale dell’adozione di “tutte le
misure necessarie”. A conferma, è sufficiente leggere un punto delle premesse
(“Considerato che l’imposizione di un’interdizione su tutti i voli nello spazio aereo
della Jamahiriya Araba di Libia costituisce un importante elemento per la
protezione dei civili …”) ed il punto 6 dell’articolato (“Delibera di imporre
un’interdizione su tutti i voli nello spazio aereo della Jamahiriya Araba di Libia,
allo scopo di contribuire a proteggere i civili”).
1.2. Ho fatto cenno al fatto che la risoluzione si fonda si sul dovere di
protezione, ma in maniera piuttosto ambigua; a ciò probabilmente costretta
proprio dal soprariferito pronunciamento del Segretario Generale nell’anno 2009.
Ed infatti, la risoluzione esordisce quasi subito richiamando le presunte
“numerose vittime civili” e “la responsabilità spettante alle autorità libiche di
proteggere la popolazione della Libia e riaffermando che grava sulle parti in
causa nei conflitti armati la responsabilità primaria di prendere tutte le misure
possibili per garantire la protezione dei civili”. Senonché il Consiglio di Sicurezza
appare, evidentemente, consapevole che, limitandosi a questi richiami, corre il
rischio di non giustificare adeguatamente l’intervento armato. Ecco allora che
entra in scena, in un crescendo, prima l’esortazione alla Libia “ad ottemperare ai
propri obblighi in base al diritto umanitario internazionale” e, subito dopo, la
3
considerazione “che i diffusi e sistematici attacchi attualmente in corso nella
Jamahiriya Libica contro la popolazione civile potrebbero configurare la
fattispecie di crimini contro l’umanità”. Questo è il primo grimaldello: “crimini
contro l’umanità”. E tuttavia è da rimarcare – ed è qui che si annida l’ambiguità
cui mi riferivo – la formula dubitativa con cui, appunto, si ipotizza la ricorrenza
della fattispecie: “potrebbero configurare”.
Insomma, finché si è trattato di attribuire alla Libia la responsabilità di
“numerose vittime civili”, il Consiglio di Sicurezza poteva pure appoggiarsi alle
“notizie” manipolate quando non inventate da Al Jazeera ed Al Arabica (e
Reuters, ecc.), onde affatturarsi con una riesumata albagia coloniale la nefanda
drammaturgia poi messa in scena; ma quando è stato necessario compiere il
passo decisivo per l’adozione della risoluzione, ossia individuare gli estremi per
la ricorrenza della ben più impegnativa figura dei “crimini contro l’umanità”, ecco
che il Consiglio di Sicurezza, privo di elementi, è stato costretto all’uso del
condizionale.
Il che, tuttavia, non gli ha impedito di adottare egualmente la risoluzione,
ma ciò mediante un vero e proprio salto logico, nel momento in cui, all’ultimo
punto delle premesse, ha frettolosamente buttato lì la seguente frase:
“Riconoscendo che la situazione nella Jamahiriya Araba di Libia continua a
costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale” (uniche
condizioni, si ripete, che a mente dell’art. 39 dello Statuto dell’ONU legittimano
un intervento armato). Ecco il secondo grimaldello. Ma il cerchio (non) si chiude.
Difatti, come si può vedere, manca qualsiasi consequenzialità tra premesse e
conclusioni, giacché non viene in alcun modo argomentato come e perché la non
meglio precisata “situazione” costituirebbe “una minaccia alla pace e alla
sicurezza internazionale”.
Del resto, che il passaggio della risoluzione appena considerato, ossia
quello che in buona sostanza attiene alla mancanza di alcun elemento di fatto
(nemmeno indiziario e da valutarsi in via sommaria) atto a fondare un intervento
armato, sia particolarmente fragile e lacunoso, lo si può evincere anche dalla
mancata attività di accertamento da parte del Consiglio di Sicurezza circa
“l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di
aggressione”, e ciò in patente violazione dell’art. 39 dello Statuto dell’ONU, che
tale accertamento prescrive.
Suona, infine, addirittura beffardo il richiamo del Consiglio di Sicurezza,
contenuto al penultimo punto delle premesse, alla riaffermazione del “proprio
impegno a salvaguardare la sovranità, indipendenza, integrità territoriale e unità
nazionale della Jamahiriya Araba di Libia”.
4
Peraltro, proprio il fatto che si sia deciso ed attuato l’intervento bellico sulla
base di e
nonostante una
risoluzione caratterizzata da quelle che a me
sembrano conclamate e gravi raffazzonature esibite dalla sua trama
argomentativa, dimostra, una volta di più, e sempreché ve ne fosse bisogno,
l’irrilevanza del solo fattore giuridico nel determinare gli accadimenti di politica (in
senso lato) internazionale.
2.0. Quanto alla verifica della conformità o meno dell’intervento bellico al
dettato della risoluzione, sgombro subito il campo da una questione che,
nonostante in realtà non avrebbe alcuna ragione di essere, stante la sua palese
assurdità, circola tuttavia insistentemente da qualche ora. Essa, precisamente, si
risolve nell’interrogativo se la risoluzione 1973 ammetta o meno la fornitura di
armamenti direttamente ai ribelli da parte delle potenze belliche in azione1.
La risposta deve essere recisamente negativa, non constando in alcun
punto della risoluzione stessa, né esplicitamente né implicitamente, e pur
assumendo l’adozione di canoni interpretativi quanto più lati ed estensivi
possibile, l’esistenza di disposizioni che la ammettano.
In particolare, a me pare certo che l’interpretazione non possa giungere al
punto di forzare la previsione circa la facoltà degli Stati membri di assumere
“tutte le misure necessarie per proteggere i civili e le aree a popolazione civile
minacciate di attacco nella Jamahiriya Araba di Libia” (v. punto 4 della
risoluzione), facendo rientrare in quest’ultime, appunto, la fornitura di armi ai
ribelli, che le potrebbero usare così per proteggere i civili in thesi attaccati da
Gheddafi. Difatti, non solo “le misure necessarie” sembra debbano continuare a
rimanere nella sfera di controllo degli Stati che tali misure adottano (cosa che
invece non si verificherebbe pienamente con la consegna delle armi ai ribelli),
ma addirittura si darebbe l’eventualità che gli stessi ribelli usino le armi contro i
civili abitanti delle città “gheddafiane” poste, ad es., sotto assedio da costoro.
Analogamente, nemmeno la più astrusa delle interpretazioni della
risoluzione potrà mai consentire di affermare che quest’ultima contempli l’esilio di
Gheddafi (se non altro perché l’esilio presuppone il consenso, per quanto
estorto, di quest’ultimo, mentre l’adozione delle “misure necessarie” implica
chiaramente un’iniziativa unilaterale degli Stati della coalizione; ma il tema ha
1 Peraltro, può essere rivelatore del vero obiettivo della risoluzione 1973 quanto sostenuto al
riguardo dal segretario generale della NATO, ossia che noi “siamo là per proteggere le
popolazioni e non per armarle”, giacché in tal modo egli implicitamente presuppone
l’identificazione delle “popolazioni” civili con i ribelli e dunque, in definitiva, che l’intervento bellico
sia stato deciso per aiutare e proteggere i ribelli; il che, in effetti, è quanto verificatosi sin
dall’inizio delle operazioni.
5
scarsa rilevanza pratica, dal momento che, in caso di esilio, il suo fondamento si
rinverrebbe, appunto, esclusivamente nel consenso dell’esiliato).
Questione di più incerta valutazione, per contro, è se la previsione della
facoltà di adottare “tutte le misure necessarie”, che sembra consentire (seppure
con un’interpretazione che tende a far straripare il significato oltre i limiti che
dovrebbero essere fissati dall’esegesi del solo dato testuale) agli Stati belligeranti
di bombardare i gangli vitali e strategici (dall’apparato militare libico nel suo
complesso alle infrastrutture anche civili) in quanto ritenuti potenzialmente
utilizzabili contro “i civili e le aree a popolazione civile minacciate di attacco”,
autorizzi invece i bombardamenti dei tank libici da parte degli aerei militari dei
“volenterosi” nel pieno di una singola e specifica battaglia con i ribelli per la
conquista di una città che però sia totalmente disabitata. Come pare sia
accaduto nella recente battaglia di Ajdabiya, il cui esito vittorioso per i ribelli è
stato determinato proprio dai raid aerei degli alleati.
Al proposito, propenderei per la negativa, poiché in quest’ultimo caso si
sarebbe in presenza di bombardamenti contro singoli mezzi militari di una sola
parte nel corso di una specifica, individua, battaglia tra unità combattenti ed in
assenza di alcun pericolo per i civili (ché non ve ne sono); con la conseguenza
che tali bombardamenti mi pare integrerebbero una violazione della sovranità
statuale libica, la quale implica, ovviamente, e nessuno lo ha mai messo in
dubbio, la potestà da parte del governo legittimo di reprimere gl’insorti cirenaici;
sovranità statuale, del resto, esplicitamente salvaguardata – seppure con il
rilevato effetto derisorio – dalla pur ignobile risoluzione 1973.
3.0. Si è già osservato in più luoghi che non soltanto e non tanto l’illegittimità
ma financo il modo totalmente abborracciato e sbilenco con cui è stata
confezionata la risoluzione 1973, disinvoltamente incurante sia delle
macroscopiche violazioni dei principi e regole procedurali sanciti dalla
consuetudine internazionale e dallo stesso Statuto dell’ONU sia delle marchiane
contraddizioni tra premesse e conclusioni, rendono manifesta l’irrilevanza dello
strumentario giuridico con cui si è inteso realizzare un obiettivo preventivamente
deciso in base a dinamiche e presupposti che nulla hanno a che vedere con
l’andamento della discussione svoltasi in sede di Consiglio di Sicurezza e le
dichiarazioni rese prima, durante e dopo l’adozione della stessa dalle potenze
che hanno la disponibilità del Consiglio stesso, e dunque, in ultima istanza, dai
membri permanenti titolari del diritto di veto.
3.1. In particolare, Russia e Cina la
cui formale mancanza di posizione in
sede di voto ha di fatto dato ragione ai fautori della teoria della c.d. astensione
costruttiva, da costoro concepita, in caso di disaccordi in seno al Consiglio di
6
Sicurezza, quale male minore da accettare pur di conseguire comunque
l’attuazione degli obiettivi di militarismo umanitario hanno
sin qui posto in
essere comportamenti improntati ad un anonimo e sostanzialmente cordiale (nei
confronti delle potenze belligeranti) disappunto, estrinsecatosi (ad eccezione di
qualche eruzione collerica di Putin tanto impetuosa quanto ineffettuale, anche
perché ricondotta prontamente negli argini di una semplice opinione personale,
per quanto importante) in un semplice controcanto ai continui “strappi” e salti di
livello imposti all’azione militare dagli USA, i quali si impongono dunque sempre
più come coloro che dettano l’agenda ed alzano sempre più il livello e l’entità
della posta in gioco, con gli Stati critici (ma astenuti) affannosamente a rimorchio.
Ad es., una volta approvata la risoluzione, il tema che si è (recte: le
potenze della coalizione hanno) imposto subito all’attenzione era la conformità o
meno alla stessa dei bombardamenti di centri di comando strategico militare
(compreso il “bunker” di Gheddafi a Tripoli) ed infrastrutture anche civili
utilizzabili potenzialmente dall’apparato militare libico. Ora, a partire da qui,
subito la Russia e la Cina si sono collocate su questo terreno di discussione da
altri stabilito, “dimenticandosi” però totalmente che il vizio era all’origine, ossia
era rappresentato dalla stessa risoluzione, che quindi avrebbe dovuto essere
posta radicalmente in questione al fine di tentare quantomeno di promuoverne la
revoca o un sostanziale ridimensionamento (che poi non ci sarebbero riuscite è
tutt’altro tipo di discorso, giacché avrebbero comunque mantenuto il punto
essenziale, senza cedere e lasciarlo passare come scontato una volta per tutte).
Ancora, in queste ultime ore il nuovo argomento in discussione sembra,
come già detto, la conformità o meno alla risoluzione della fornitura di armamenti
ai ribelli da parte degli Stati dell’Alleanza, ed anche qui la Russia (la Cina mi pare
nemmeno sia intervenuta al riguardo) si è fatta trascinare nella relativa disputa,
non accorgendosi, però, che in tal modo si era già data per archiviata e scontata
l’ammissibilità dell’immediatamente precedente “livello” dello “scontro”, al punto
che oramai la demolizione della risoluzione 1973 sembra questione già antica e
superata (e probabilmente tale è realmente divenuta).
Peraltro, sembra probabile che quest’ultimo argomento non sfoci
operativamente in alcunché, e tuttavia intanto esso potrebbe essere rimpiazzato
da un ulteriore e più contundente tema di discussione, o anche dal tema
precedente ma arricchito con qualche variante “ingegnosa” (ad es., non può
escludersi che s’imponga la questione dell’insediamento nel territorio libico delle
organizzazioni non governative incaricate di prestare l’”assistenza umanitaria” e,
con essa, della possibilità della connessa loro protezione da parte di un
contingente ONU o NATO, nell’assunto di non considerarlo “forza di occupazione
7
straniera”, in quanto il punto 4 della risoluzione inibisce ad essa l’ingresso nel
territorio libico stesso).
Appare limpidamente, così, come tanto più le dispute ermeneutiche
intorno alla risoluzione 1973 si faranno caotiche ed indefinite, quanto più
finiranno per esibire addentellati flebili e comunque assai frammentari con i piani
strategici che gli Stati in lotta per l’egemonia tenteranno di attuare, financo con
tutte le improvvisazioni e le impotenze del caso.
3.2. Credo anche che gli stessi istituti giuridici che l’ideologia della dottrina
internazionalistica ha tentato di approntare come luccicante protesi negli anni del
monocentrismo statunitense mostreranno definitivamente la corda, o meglio, il
che in fondo è lo stesso, la loro genesi reale; ciò che naturalmente potrebbe
segnare, come tutti i disvelamenti operati dallo studio scientifico, perlomeno un
avanzamento teorico, ma a patto, beninteso, che si sappia dove e come
osservare.
In altri termini, ritengo possano darsi le condizioni di possibilità affinché
emerga il connotato fondamentale degli istituti giuridici di diritto internazionale,
ossia quello di essere sostanzialmente un semplice guscio vuoto riempito di volta
in volta dalle mutevoli strategie di potenza degli Stati, incuranti, peraltro, dei veri
e propri capovolgimenti di giudizio attuati anche più volte nel corso di un arco di
tempo relativamente assai breve.
Mi paiono emblematiche, al riguardo, le mutevoli, recenti, vicissitudini
storiche proprio del concetto di insurrezione (o di movimenti insurrezionali o,
ancora, di partito insurrezionale), definito tradizionalmente come l’azione di
coloro i quali perseguono, mediante la lotta armata, il rovesciamento del governo
di uno Stato (cosiddetto governo legittimo o costituito), oppure la secessione di
una parte del territorio medesimo, purché abbiano acquisito un controllo
abbastanza stabile su una parte del territorio nazionale.
In particolare, a seguito della (illegittima) guerra in Serbia, con l’intervento
bellico delle potenze della NATO giustificato con il pretesto della necessità
dell’intervento umanitario a favore degli insorti secessionisti della provincia
autonoma del Kosovo, la successiva indipendenza che quest’ultima ha
autoproclamato dopo un periodo di amministrazione territoriale da parte delle
Nazioni Unite, è stata riconosciuta ad opera di molti di quegli stessi Stati europei
che poi, però, si sono opposti fermamente all’indipendenza di Abkazia e Ossezia
del sud2, riconosciuta, per contro, a sua volta dalla Russia (e mi pare da ben
2 Consiglio europeo straordinario di Bruxelles del 1° settembre 2008 – Conclusioni della
Presidenza, Documento del Consiglio europeo n. 12594/08 CONCL 3, punto 2, in rete nel sito
8
pochi altri Stati), la quale, correlativamente, si è invece opposta al
riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.
Naturalmente, in questa sede non mette conto di dilungarsi sulle vere e
proprie acrobazie verbali congegnate dalle potenze di volta in volta coinvolte al
fine di giustificare la diversità di giudizi a seconda delle convenienze (anche se
personalmente ritengo, scusandomi per il carattere apodittico dell’affermazione
ma è perché non interessa approfondire ai fini dell’economia del discorso che qui
si sta conducendo, che la Russia, dalla sua, possa vantare assai più fondate
ragioni, di carattere storico e geopolitico, analoghe, peraltro, con le dovute
varianti, a quelle della SerbiaMontenegro
con riferimento al Kosovo).
Aggiungo soltanto che la Russia, con l’”astensione costruttiva” sulla
risoluzione 1973, certo motivata contraddittoriamente e con notevole travaglio
ma comunque convergente con le potenze interventiste sul principio
ideologicamente cruciale della responsabilità di proteggere le popolazioni civili,
credo abbia aperto un pericoloso varco rispetto alla linea politica che sta tenendo
nei confronti della questione Cecena, giacché facilmente i suoi nemici potranno
invocare, in una diversa fase storica ma non credo troppo lontana nel tempo,
l’applicazione del predetto principio a favore degli insorti ceceni.
ufficiale del Consiglio. Il 26 agosto 2008 la Presidenza del Consiglio dell’UE aveva rilasciato una
dichiarazione relativa al riconoscimento russo dell’indipendenza di Abkazia e Ossezia del Sud, in
cui si condanna fermamente la decisione russa per la sua contrarietà ai principi d’indipendenza,
sovranità e integrità territoriale della Georgia riconosciuti dalla Carta delle Nazioni unite, dall’Atto
finale di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e da varie risoluzioni del Consiglio
di sicurezza: Déclaration de la présidence du Conseil de l’Union européenne aprés la
reconnaissance par les autorités russes de l’indépendance de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud,
in rete al seguente indirizzo: www.ue2008.fr/PFUE/lang/fr/accueil/PFUE08_
2008/PFUE26.08.2008/
PESC. Inoltre, reazioni negative si sono avute, oltre che, ovviamente, dalle autorità
georgiane che hanno denunciato la violazione da parte russa della propria integrità territoriale e
della propria sovranità, anche da parte degli Stati Uniti e di molti altri Paesi e sono state espresse
in alcune riunioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU: si rinvia ai seguenti documenti: Security
Council 5952nd Meeting (PM) del giorno 8 agosto 2008 (SC/9418) e Security Council 5969th
Meeting (PM) del 28 agosto (SC/9438) consultabili in rete sul sito ufficiale delle Nazioni unite:
www.un.org. Anche la NATO ha espresso la sua condanna per il riconoscimento unilaterale russo
dell’indipendenza delle due regioni separatiste, e ciò con uno “statement” del Consiglio del 27
agosto: Statement by the North Atlantic Council on the Russian recognition of South Ossetia and
Abkazia regions of Georgia, in cui si afferma che la Russia avrebbe violato diverse risoluzioni del
Consiglio di sicurezza dell’ONU che riconoscono l’integrità territoriale della Georgia, oltre ai
principi OSCE sulla pace e la stabilità in Europa, richiamando la Russia al rispetto dell’integrità
territoriale georgiana. Il documento è pubblicato in un comunicato stampa online
al seguente
indirizzo: www.nato.int/docu/pr/2008/p08108e.
html. Insomma, turbinosi giri di valzer
giuridicodiplomatici.
9
4.0. Da ultimo, ritengo utile operare alcune puntualizzazioni in merito alla
valenza che può attribuirsi all’atteggiamento (da me ritenuto) sorprendentemente
debole (soprattutto) della Russia nella crisi libica, nel contesto della concezione,
elaborata da Gianfranco La Grassa ed assunta come teoria di riferimento dal
blog (e comunque dal sottoscritto), della presente fase storica quale epoca del
multipolarismo (il cui significato, nell’accezione in cui viene inteso da La Grassa
stesso e dagli altri collaboratori del blog, mi permetto di dare per acquisito).
In effetti, si potrebbe sostenere l’opinione che l’inoppugnabile dato
rappresentato dalla debolezza della Russia, sembra confutare la tesi del declino
degli USA (seppure ancora prima potenza mondiale), assunto come elemento
caratterizzante l’attuale mondo multipolare. Senonché, a mio avviso la
fondatezza di tale opinione è inficiata da un duplice errore prospettico, di metodo
e di contenuto, entrambi, del resto, strettamente connessi.
Il primo consiste nel ritenere che la teoria delle formazioni sociali, ma direi
in generale (anche se non in assoluto) la pratica scientifica, debba e possa
rendere esattamente conto di ciascun accadimento che ha luogo in un dato
istante storico, colto però soltanto nella sua singolarità e dunque irrelato rispetto
ad altri accadimenti. Certo, si tratta di una distorsione ottica in gran parte
inevitabile poiché dovuta ad una nostra peculiare condizione, ossia quella di
contemporanei rispetto al verificarsi di detti accadimenti, la quale ce li fa apparire
sovradimensionati, ciclopici, la cui pur effettiva grandezza in qualche modo
induce a schiacciarci soltanto su di essi, rendendoci così difficoltoso
l’ampliamento dell’angolo visuale. Viceversa, è proprio un dispositivo teorico
rettamente funzionante che può consentire tale ampliamento, e dunque una
sorta di pur parziale anticipazione di quella prospettiva che soltanto la distanza
storica del medio periodo permetterà di guadagnare, ponendo l’analizzante in
condizione di valutare più accadimenti nella loro indisgiungibile costellazione
unitaria.
Il “reticolo” teorico viene teso, insomma, a maglie necessariamente larghe,
onde consentire, ed unicamente per sua capacità intrinseca, una “giusta”
distanza dalla realtà; che non le sia, cioè, né così vicino al punto da confondersi
e ritagliarsi di volta in volta un profilo derivante, per filiazione diretta, dal mutevole
contorno dei variegati dati empirici presi in considerazione, né troppo lontano,
così da ritrovarsi a galleggiare in un vuoto pneumatico, senza alcun addentellato
con il reale. In concreto, la crisi libica, che a noi pare storicamente enorme (e
probabilmente lo è, ma non con la funzione e portata che presumo noi le si
attribuisce), va inserita in un quadro multipolare la cui scala temporale, siccome
calibrata in funzione del medio periodo (le “maglie larghe”, così definite anche
sotto questo profilo), abbraccia più accadimenti connettendoli in un “sistema” di
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nessi che li avvincono. Per il momento, quindi, si può e si deve, ovviamente,
analizzare in tutta la sua rilevanza la crisi libica, ma senza avere la fretta di
inferirne immediatamente “natura” e “direzione” di fondo del processo storico in
cui essa ha avuto la ventura di venire alla luce.
L’errore di contenuto, infine, consiste nel postulare implicitamente che il
multipolarismo equivalga senza residui al declino degli USA, e segnatamente al
declino in quanto viene fatto coincidere pienamente con il tramonto della
prevalenza militare su scala planetaria, a vantaggio della crescita militare dalle
altre potenze competitrici nella lotta per la supremazia. Così ragionando, ne
deriverebbe, a contrario, che la mancata perdita di detta prevalenza militare da
parte degli USA, risulti automaticamente sintomo ed anzi unico effetto di
un’ancora persistente e ben saldo monocentrismo di quest’ultimi. Senonché, il
tratto differenziante tra assetto multipolare e monocentrico, almeno secondo
l’idea (recentemente ripresa) di La Grassa che mi sento di condividere, va
ravvisato non già esclusivamente nel mero fatto della supremazia militare,
rispettivamente declinante (multipolarismo) e perdurante (monocentrismo),
bensì, prevalentemente, nello svuotamento della funzione di coordinamento
mondiale, il quale a sua volta produce una serie di risultati tra i quali, ad es., il
cambio di intensità delle perturbazioni nella sfera economica, che si commutano
da più blande recessioni a vere e proprie crisi sistemiche. In quest’ottica,
pertanto, la guerra libica, accompagnata da ciò che in effetti appare un attestato
di sostanziale paralisi e debolezza di Russia e Cina, con una correlativa assai
probabile vittoria militare del gruppo delle potenze occidentali guidato dagli USA,
non sembra tuttavia necessariamente indicativa di un persistente monocentrismo
della potenza d’oltreatlantico. Semmai, la cifra della stessa pare rinvenirsi nella
suddetta mancanza di coordinamento, la cui attuale forma di esistenza è il caos
degli ordinamenti sociali e degli assetti d’area.
 
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