L'importanza della storia

« Older   Newer »
  Share  
Soso.
view post Posted on 13/4/2009, 23:42




So che questi due articoli sono stati già pubblicati nei thread relativi alle parti contingenti, ma vorrei pubblicarli in un unico thread per il discorso di fondo che c'è in questi due articoli, che danno il senso dell'importanza della storia e che potrebbero essere presi come linee guida per la sezione "storia e immaginario".







CPN del 29 Marzo 2009 - Intervento di Alberto Burgio

di Alberto Burgio

su Prc del 29/03/2009


Il discorso di Berlusconi al congresso fondativo del Pdl non è utile solo per capire quel che è successo in Italia in questi vent’anni, ma anche per riflettere sugli errori della sinistra. Berlusconi ha capito l’importanza della storia. Per questo ha dedicato buona parte del discorso a “inventare una tradizione”, stando alla quale dal 1994 ad oggi si sarebbe verificata una riscossa democratica contro l’egemonia comunista. Berlusconi non racconta questa storia solo per celebrare i mutamenti regressivi del senso comune, l’attacco al lavoro, le modifiche istituzionali di segno oligarchico: tutte cose che evocano gravi responsabilità della sinistra moderata. La racconta anche per segnare una direzione di marcia, per indicare gli obiettivi da perseguire. Questa è una lezione anche per noi. La destra produce narrazioni perché conosce la loro potenza costituente, sa che la ricostruzione storica genera soggettività. Anche la sinistra lo sapeva, ma in questi vent’anni ha smantellato i propri contesti di senso e di valore e i propri quadri interpretativi, assumendo quelli dell’avversario. Così ha disperso la capacità di costruire relazioni, sistemi di riferimento, forme dell’identità, e ha sancito una subalternità che, prima di essere politica, è culturale. Anche noi abbiamo trascurato questo terreno negli anni passati. Finalmente a Chianciano abbiamo fermato una lunga deriva, respingendo l’ultimo, estremo attacco alla storia e alle idee dei comunisti. Ma resta da fare un grande lavoro ricostruttivo, per elaborare un’idea di noi stessi e della nostra gente che saldi dinamicamente e criticamente il patrimonio delle idee e delle lotte del movimento operaio con l’esperienza delle nuove realtà sociali e delle nuove logiche del conflitto di classe. Va ripreso il grande lavoro della rifondazione comunista rigettando ogni propensione liquidatoria. La decisione che questo Cpn assume, di andare alle europee con liste unitarie delle forze comuniste e anticapitaliste, è un primo importante passo nella direzione giusta.



http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m...DArticolo=28556


Europee, occasione per superare il 1989

di Alberto Burgio e Claudio Grassi

su Il Manifesto del 08/04/2009


Il discorso di Berlusconi al congresso fondativo del Pdl è l'ennesima conferma di quanto la destra sia consapevole della funzione costituente delle «grandi narrazioni». La storia (anche se letteralmente inventata) è un ingrediente essenziale della soggettività, che nasce dall'incontro tra la coscienza (della realtà e di ciò che l'ha prodotta) e i mezzi necessari a realizzare i propri obiettivi. La destra italiana lo ha capito benissimo, e ne ha tratto preziose indicazioni soprattutto a partire dal 1989.
In questi vent'anni, mentre la sinistra ripudiava le ipotesi teoriche e storiografiche che avevano sostenuto le sue battaglie ancora nel «trentennio glorioso» successivo alla guerra mondiale, la destra ha rilanciato proprio sul terreno ideologico. È riuscita a legittimarsi e a rappresentarsi come alfiere di libertà e di modernità prospettando codici morali, modelli di comportamento e, appunto, grandi narrazioni, divenute egemoni anche grazie a un efficiente sistema mediatico.
In questa operazione - è bene saperlo - non c'è limite alla creatività (alla sfrontatezza). Come Berlusconi può proclamarsi presidio della Costituzione antifascista che aborre (e alla quale cerca di sostituire il piano piduista) senza che il dichiararlo gli si ritorca contro, così lo scudiero Bondi può assimilare Berlusconi ad Adriano Olivetti senza sprofondare nel ridicolo. Ma appunto, ciò può accadere senza colpo ferire anche perché dall'altra parte si è, per lo più, soltanto distrutto.
A sinistra, la critica di scelte ed esperienze compiute dal movimento operaio e dagli Stati socialisti non si è accompagnata a una rielaborazione coerente con i presupposti di fondo dell'opzione anticapitalistica. La gran parte dei gruppi dirigenti ha invece frettolosamente abbandonato qualsiasi istanza critica, compiendo un'operazione in senso proprio trasformistica. Che ha permesso alla destra di dilagare, prima ancora che nei luoghi deputati al governo della società, nelle menti e nei cuori della maggioranza degli italiani.
Anche la storia di Rifondazione comunista può essere utilmente letta in questa chiave. L'estrema inimicizia che ha ispirato i rapporti a sinistra dopo la Bolognina non nasce soltanto da ragioni contingenti, è figlia anche di una divergenza fondamentale radicata nel terreno delle culture politiche. Chi ha rifiutato quella mutazione è apparso un nemico. Se non vogliamo edulcorare i fatti, di questo si è trattato, sino alla joint venture tra Veltroni e Berlusconi, tesa prima a far cadere Prodi (reo del connubio «contro natura» con la sinistra anticapitalistica e con i comunisti), poi a riscrivere la legge elettorale europea (per cancellare la sinistra a Strasburgo, dopo averla sterminata a Roma).
Per lungo tempo questo attacco non ha incontrato risposte adeguate. Si è criticata la subalternità della sinistra moderata, ma si è anche operata una revisione culturale che ha man mano svuotato di senso l'opzione comunista, sino a negare il ruolo fondativo del conflitto capitale-lavoro, a teorizzare la scomparsa dell'imperialismo e a ridurre il comunismo stesso a una «tendenza culturale». Non è casuale che, di pari passo, si sia operato per il superamento del partito come soggetto politico organizzato e radicato sul territorio.
Oggi questa vicenda sembra finalmente registrare un'inversione di tendenza. La lista che riunisce nel segno della falce e martello le forze comuniste e anticapitaliste non è, come sostengono i suoi detrattori, frutto di una «operazione nostalgia», così come non è un cartello elettorale costruito al solo scopo di superare lo sbarramento. Nasce, al contrario, dalla comune consapevolezza degli errori commessi in questi vent'anni e dell'urgenza di risposte diverse - nel segno, appunto, della battaglia anticapitalistica - alle drammatiche emergenze sociali e politiche prodotte dalla crisi.
Le forze raccolte in questa lista, a cominciare dal Prc e dal Pdci, condividono la convinzione che la crisi discenda dalle dinamiche strutturali del capitalismo, che ciclicamente generano crisi da sovrapproduzione (con ciò che ne segue in termini di macelleria sociale, di strette autoritarie e di derive bellicistiche). La condivisione di questa base analitica si riflette nel comune riferimento al movimento di massa espressosi nelle grandi mobilitazioni nazionali del 20 ottobre 2007 e dell'11 ottobre 2008 (organizzate dalle forze che sono in questa lista e che, non a caso, non videro la partecipazione di Sd e di altri compagni, che oggi sostengono la lista Sinistra e Libertà) e alle battaglie del Gue contro l'Europa di Maastricht, di Lisbona e della Bolkestein e a sostegno dei movimenti anticapitalistici e delle lotte per l'autodeterminazione dei popoli in Medio Oriente e in America Latina.
Berlusconi sembra stravincere, mentre l'unità sindacale è in pezzi e il Pd è in caduta libera (-8-9% dall'aprile 2008). Ma il quadro del conflitto non è chiuso, la società non è pacificata, come dimostrano le mobilitazioni di massa promosse dalla Cgil e il ritorno dell'Onda che tanti davano già per estinta. Con questa scelta unitaria, le forze sociali e politiche comuniste e anticapitaliste intendono contribuire alla battaglia contro le politiche della destra, consapevoli che non si tratta soltanto di contrapporsi a una devastante offensiva antioperaia e antipopolare, ma anche di porre fine a una ventennale vicenda di subalternità culturale.

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m...DArticolo=28649


 
Top
Lavrentij
view post Posted on 14/4/2009, 01:21




messo come importante
 
Top
Soso.
view post Posted on 14/4/2009, 01:28




da la Rinascita della sinistra n.12 del 26/03/09 – www.larinascita.org

Le sfide che ci attendono

di Andrea Catone

Ilcapitalismo sta attraversando una crisi mondiale piu profonda forse di quella degli anni 1930. Sappiamo con Marx (e anche con W. Benjamin) che essa può portare al socialismo, ma anche, diversamente da quel che credeva il determinismo positivistico della II Internazionale, fiducioso nel necessario e inevitabile avvento del sol dell'avvenire, alla "comune rovina delle classi in lotta", ad un regresso generale della civilth: socialismo o barbarie rimane l'alternativa di fondo della nostra epoca.

Alle origini del comunismo contemporaneo - quello che si sviluppa nella teoria a nella pratica di Lenin e Gramsci, per citare solo due tra le figure piu luminose - vi è la consapevolezza del ruolo ineludibile del soggetto rivoluzionario comunista. Senza comunisti organizzati, senza partito comunista, le contraddizioni - oggi così manifestamente esplosive - del sistema capitalistico, non si risolvono automaticamente nel socialismo. I comunisti - è ancora il Manifesto del 1848 a dircelo - non sono certo l’unica forza anticapitalista (e vi e anche un anticapitalismo regressivo), non sono gli unici che si battono contro l'ineguaglianza e le ingiustizie sociali, ma sono la forza che opera consapevolmente nella prospettiva strategica di superare (nel senso hegeliano di Aufhebung)il capitalismo nel modo di produzione fondato sulla proprietà sociale a sulla pianificazione socialista - la sola capace di superare 1'anarchia della produzione capitalistica. I comunisti sono l’antagonista storico, non contingente e non casuale, del capitalismo. Di cio le classi dominanti borghesi sono ben consapevoli: l'anticomunismo è un dato permanente della società capitalistica (percio non ci si deve meravigliare se Berlusconi lo evoca, anche se la forza comunista in Italia non è mai stata, dopo il 1945, così ridotta). Esso e stato ed è praticato in modi diversi, dall'attacco frontale e diretto alla strategia più sottile - così ben analizzata da Gramsci nei Quaderni a proposito del trasformismo e della rivoluzione passiva - di decapitare ideologicamente e politicamente i comunisti, di "morfinizzarli", trasformandoli da antagonista storico del capitale in appendici subalterne ai partit borghesi. Per questo, la capacità di agire sul fronte della "battaglia delle idee" non è meno importante e necessaria della capacità di promuovere, organizzare, dirigere le lotte sociali.

La storia degli ultimi 30 anni - dopo che il movimento comunista in Italia a nel mondo aveva marcato fino alla metà degli anni 70 importanti successi, suggellati dalla vittoria dei viet-cong contro to zio Sam - e segnata da un virulento attacco anticomunista sul piano politico a su quello ideologico-culturale, al quale i comunisti non hanno saputo contrapporre strategie adequate, si che, dopo il lavorio di erosione degli anni 80, si è abbattuta la valanga del 1989-91, con la controrivoluzione capitalistica in Urss e nell'Est europeo e la Bolognina di Occhetto. Ma la valanga dell'89 non travolge tutto, i comunisti provano, nel mondo e in Italia, a resistere, riorganizzarsi, ricostruirsi. Con comprensibili difficoltà, incertezze, passi falsi, cadute. Il Prc sorto in Italia 18 anni fa, se ebbe il grande merito di contrapporsi alla derive e di raccogliere forze anticapitaliste e comuniste, non volle però fare seriamente i conti con la storia del movimento comunista italiano e internazionale, preferendo "pragmaticamente" (ma a un pragmatismo che si paga a caro prezzo) semplificazioni, mitizzazioni e facili slogan, fino alla deriva bertinottiana, che rompe con la tradizione comunista e col marxismo e apre le porte all'ultimo - in ordine di tempo - tentativo trasformistico di diluire il partito comunista in una sinistra arcobaleno.

Una delle ragioni non secondarie delle diverse scissioni del Prc, di cui la piu consistente a significativa, ma non certo l’unica, dette origine nel 1998 al Pdci, e della notevole "diaspora' comunista è in questo deficit di elaborazione e formazione teorica, che ha reso la direzione politica cieca e oscillante tra la Scilla dell’opportunismo riformistico e la Cariddi del massimalismo estremistico, lì dove la migliore tradizione comunista del 900 sapeva individuare, grazie alla cassette degli attrezzi di Marx e alla leniniana "analisi concreta della situazione concreta", la giusta rotta the faceva effettivamente avanzare il movimento operaio. Ora che, con fatica e difficoltà, ma con la determinazione imposta dalla consapevolezza della gravità della situazione e della necessità storica di un forte partito comunista capace di tenere bene la rotta nelle tempeste capitalistiche, siamo impegnati ad unificare i comunisti in Italia, dobbiamo saper recuperare quella grande tradizione comunista a sviluppare i suoi insegnamenti per le sfide che ci attendono.

http://www.resistenze.org/sito/te/pe/un/peun9c30-004775.htm



CITAZIONE (Lavrentij @ 14/4/2009, 02:21)
messo come importante

Ottimo! Grazie
 
Top
EL_ROJO
view post Posted on 3/7/2009, 21:45




QUOTE (Soso. @ 14/4/2009, 02:28)
Ora che, con fatica e difficoltà, ma con la determinazione imposta dalla consapevolezza della gravità della situazione e della necessità storica di un forte partito comunista capace di tenere bene la rotta nelle tempeste capitalistiche, siamo impegnati ad unificare i comunisti in Italia, dobbiamo saper recuperare quella grande tradizione comunista a sviluppare i suoi insegnamenti per le sfide che ci attendono.






Alle origini del comunismo contemporaneo - quello che si sviluppa nella teoria a nella pratica di Lenin

Lenin e il partito comunista unitario son fuori moda compagno...ora van per la maggiore giullari e effetti speciali...

...e noi in questo scenario ed immaginario le prendiamo tante...ma tante.....
 
Top
Libertario
view post Posted on 18/8/2009, 06:26




Dubito che Berlusconi capisca qualcosa.
Il suo punto di forza è proprio non capire nulla, tranne se stesso.
Ma se gli si va dietro, perché in un gioco delle parti "accrescendo il nemico si accresce se stessi" si fa precisamente il suo gioco e, dunque, si capisce meno di lui.
 
Top
Comandante Carlos
view post Posted on 18/8/2009, 12:37




A che serve la storia?

Luciano Canfora, 27 febbraio 1998

Canfora
: Mi chiamo Luciano Canfora, insegno Filologia greca e latina e mi occupo di storia. Come mai questo mestiere? Credo che le cause siano sempre molto soggettive, comunque ne immagino una. Quando facevo il liceo, eravamo alla metà degli anni Cinquanta, cioè in un'epoca di grandi contrapposizioni ideologiche, politiche, e questo spingeva a studiare la storia per capire il presente in un modo abbastanza cogente e anche, direi, drammatico. Ma, nel prosieguo di tempo, mi sono reso conto che questo studio, senza una buona attrezzatura, non si può condurre e allora il lavoro che faccio è un lavoro che si potrebbe definire un lavoro preparatorio allo studio della storia appunto, allo studio dei testi. Si discute molto se questo sia un mestiere produttivo, quello di studiare la storia. Molti dubitano che sia utile. Io credo che per cominciare una discussione sulla storia, possiamo vedere la scheda che racconta in breve di che la storia per lo più tratta.

Sosteneva Cicerone che chiunque non fosse a conoscenza del proprio passato non avesse alcun futuro davanti a sé. L'affermazione, almeno in teoria, - nella pratica le cose stanno un po' diversamente e la storia la si insegna e la si studia poco - raccoglie il consenso dei più, ma non di tutti. Un filosofo, sicuramente un po' estremo, ma non per questo meno importante, come Friedrich Nietzsche, sosteneva infatti che la storia fosse una disciplina deprecabile e fuorviante, l'espressione massima di quel pensiero razionale, che impedisce di seguire gli istinti più profondi e vitali della natura umana. Maestra di vita per alcuni, come Tucidide, Erodoto e Marx, o esercizio inutile e addirittura dannoso per altri, vedi Seneca o Voltaire, comunque sia la storia occupa un ruolo decisivo nell'agire umano, dalla cultura alla politica. Quest'ultima, in particolare, è costantemente soggetta alle interferenze dell'interpretazione storica, fino a ingenerare l'annosa polemica sull'uso politico della storia. Qui il rischio della mistificazione è sempre in agguato. Sicuramente però lo studio della storia può aiutare a interpretare correttamente il presente. Non a caso alla storia, e al rigore analitico che essa richiede, i regimi totalitari di questo secolo, hanno contrapposto il mito, cercando, in presunte età dell'oro - la mitologia germanica per il nazismo, l'Impero Romano per il fascismo nostrano -, le proprie radici. Chissà se nei primi vent'anni del secolo ci si fosse applicati un po' di più allo studio della fine di imperi centrali e un po' meno a mitizzare i Nibelunghi, forse la barbarie nazista avrebbe trovato terreno meno fertile.

Canfora: La scheda che abbiamo visto ovviamente è molto schematica, com'è naturale nelle schede, però ha un elemento, un filo conduttore. Mette insieme una serie di scene; dal cesaricidio, l'ammazzamento di Giulio Cesare in Senato - un pezzo di Shakespeare, naturalmente ridotto al cinematografo con Marlon Brando nella parte di Marcantonio, molto giovane naturalmente - e arriva fino alla Seconda Guerra Mondiale, direi - almeno se abbiamo visto con attenzione -, attraverso una serie di tappe che sono violente. Direi che non c'era nessuna scena tranquilla, rassicurante, in quel rapido, in quella carrellata che abbiamo visto, e scene violente, direi quasi esclusivamente di guerra, tranne una testa, infilata su una picca, di una signora, che poteva essere per esempio la principessa di Lamballe, un amica di Maria Antonietta, che fu trucidata in malo modo, durante le cosiddette Stragi di Settembre, nel 1792, momento cruciale della Rivoluzione Francese, alla vigilia della battaglia di Valmy e della proclamazione della Repubblica, appunto, della Prima Repubblica francese. Ma era una scena che voleva rappresentare le rivoluzioni. Le rivoluzioni peraltro sono l'altra faccia, diciamo così, della conflittualità, per lo più bellica, di cui la storia si occupa. Intendo dire, la storia scritta, la storia che si raccoglie nei libri, nei trattati, nelle storie universali. E' una storia tutta occidentale, anche questo va detto, nel senso che si va dall'antica Roma alla guerra ultima, attraverso scene che riguardano l'Europa, l'Europa come centro del mondo. Anche questa è una scelta, una scelta che ha la sua ragion d'essere nel fatto che l'Europa ha dominato gran parte del pianeta in vari momenti e dopo le grandi conquiste coloniali, dopo la scoperta del nuovo mondo, eccetera, in modo sempre più violento, sempre più continuativo, tanto che noi oggi continuiamo a pensare i fatti sempre dal nostro angolo visuale. Faccio un esempio così, che credo di attualità. Si dice spessissimo: la fine del Comunismo. Questa è una frase che ritorna spessissimo, direi quasi di senso comune ormai. E' un po' buffa come espressione, intendendo per comunismo una organizzazione statale, che si definisca tale, poi la filosofia del comunismo come astrazione è un altro fatto. Ora esso è finito certamente in Europa, ma non in Asia, per il fatto stesso che esiste un grande paese di quasi due miliardi di abitanti, sui prossimi sei miliardi sulla faccia della terra, che si autodefinisce a torto o a ragione, questo è un altro paio di maniche, "comunista". Ora in Europa - mettiamo insieme tutti quanti i paesi d'Europa - ci saranno trecento milioni di persone, importantissime, ricche, decisive, però sono un paio di città cinesi messe insieme, tre quattro, città non di più.

STUDENTE: Tutti e due i miliardi sono comunisti?

No, non sto dicendo ora nulla di specificamente fazioso. Voglio dire, la formulazione è una formulazione eurocentrica. Questo ha una sua spiegazione naturalmente, nel senso che l'Europa è una parte molto importante del mondo, una delle parti più ricche. Le guerre che si combattono nel resto del mondo, si combattono con armi fabbricate per lo più in Europa, per esempio a Brescia. Va bene? E quindi vuol dire che è un posto che conta parecchio. Grandissima produttrice di cultura, ma anche grandissima distruttrice di altre culture, quelle americane e precolombiane, per fare un esempio. Ma insomma si potrebbe parlare anche dell'Africa, che aveva delle sue culture, che sono state stritolate dalla dominazione coloniale, eccetera, eccetera, eccetera. Tanti continenti si sono risvegliati, in antitesi alle culture di provenienza europea. E così via. Per dire, una scheda che - ora la stiamo massacrando, ma insomma ingiustamente - che ha fatto da cavia ai nostri pensierini, alle nostre riflessioni per i suoi difetti utili alla nostra discussione. Utili perché? Perché ci aiutano, questi difetti, a chiederci che cosa poi effettivamente questo mestiere di storico, di studioso di storia, di narratore di storia deve cercar di fare e di essere. Per esempio, in questo nostro secolo, si è presentata come una grande novità storiografica il fatto che un rivista importantissima francese, degli anni, tardi anni venti, che si chiama Les Annales, di cui ogni tanto sentite parlare, a scuola, più o meno attentamente, ha imposto all'attenzione il fatto che la storia non si occupa solo delle battaglie o delle guerre o delle rivoluzioni, ma anche della pace, della produttività umana, di tutti gli altri aspetti dell'esistere, dei sentimenti, no, i quali non hanno una storia proprio a tutto tondo, però anch'essi sono nella storia e quindi si trasformano, si trasformano perché si intrecciano con la moralità media. La moralità media influenza i sentimenti e il loro manifestarsi. La moralità media è un pezzo dell'evolversi della storia, come è chiaro. E quindi anche i sentimenti non sono dati come fuori del tempo, sono nel tempo. Ecco questa storiografia, detta de Les Annales, è entrata in collisione con la Storia Battaglia, l'Histoire Bataille, come si dice in francese, quasi a voler significare che quella era angusta e unilaterale - ed era vero. Solo che questo è un pensiero molto più vecchio de Les Annales, perché questi due storici che sono qui rappresentati in questo pannello, uniti in modo artificiale, è un'erma, come si dice, bifronte, con due teste unite, uno, questo, si ritiene che sia Tucidide che ha raccontato la storia della guerra del Peloponneso, quell'altro si ritiene che sia Erodoto, e ha raccontato tutto, non solo la storia delle guerre persiane, come molti pensano. Ha raccontato tutto. Ha raccontato i templi egizi come erano fatti, le mura di Babilonia, gli usi funerari dei popoli, degli Indiani, eccetera. Davvero c'è tutto. Ecco quel signore, che appunto dovrebbe essere Erodoto, diciamo, in quell'erma bifronte, è un antenato de Les Annales, perché nel suo librone di nove libri, secondo la nostra divisione affermatasi nell'antichità, c'è molto più delle battaglie. Invece questo signore qui, cioè Tucidide ha raccontato la storia di una guerra - almeno si proponeva di farlo, poi pare che non l'abbia neanche finita -, nella quale ci sono, oltre la guerra, soltanto le rivoluzioni, perché la sua idea è che la guerra civile, lo scontro delle fazioni e la guerra politica, la guerra guerreggiata con le armi, si intrecciano, spesso si intrecciano. Ed è vero. Anche la nostra esperienza - la Guerra Mondiale per l'Italia - è finita con una guerra civile negli ultimi diciotto mesi. Ma anche la Guerra del Peloponneso è finita ad Atene con una guerra civile. Ve bene, di lì discende il moderno modo di scrivere la storia, cioè da questa grande opera esemplare, che Tucidide ha abbozzato. Nell'inizio di essa lui spiega che lo fa perché può servire al politico, anche in prosieguo di tempo, quella lezione tecnica, quell'insegnamento specifico che è contenuto nella sua opera. E' lì che nasce l'idea che la storia serve alla politica o detto in maniera banale, perché è una banalizzazione che Tucidide avrebbe respinto e orripilato, che è maestra di vita. Ecco, questa è, non voglio dire che è una sciocchezza, ma è una semplificazione grossolana di quell'altra idea che è molto più sottile, che cioè il politico di professione, quello che si sporca le mani e fa questo mestiere tremendo che è il politico, che si occupa degli altri, con una dose di ambizione evidentemente perché altrimenti non lo farebbe, ma si occupa degli altri.

STUDENTESSA: Le volevo chiedere: quanto noi possiamo credere veramente alla storia, che per esempio studiamo a scuola. Io ho l'impressione che a noi arrivi sempre e comunque una visione molto parziale dei fatti storici, perché se leggiamo i resoconti di chi la storia l'ha vissuta in quel momento, per forza di cose, deve essere una versione parziale, perché influenzata dalle proprie idee su quello che gli sta succedendo intorno. Uno storico che successivamente si ritrova in mano documenti o fotografie non era lì e quindi non può raccontarci veramente che cosa è successo.

Beh, questa è già enorme, e ben venuta anche, per varie ragioni. Ben venuta nel senso che ci offre lo spunto per sfatare un mito, che cioè soltanto la storia sia - la storia come storiografia, come racconto -, sia una peccatrice sul piano della oggettività. Non è vero. Tutte le discipline sono peccatrici da questo punto di vista, tutte. Anzi la fisica più moderna ci spiega che lo strumento che osserva la microrealtà, la realtà atomica e subatomica, lo strumento, modifica l'oggetto osservato. Ora questo è agghiacciante, nel senso che tale modificazione, indotta dallo strumento, dovrebbe portarci a una grande prudenza nella accettazione dei risultati di quella osservazione. Infatti le interpretazioni dell'universo che la fisica vivente ci fornisce sono varie e tra loro diverse. Le ipotesi creazioniste o non creazioniste si affrontano nel pensiero fisico, nella riflessione dei grandi fisici, oggi, tanto quanto nella mente più semplice, diciamo così, meno attrezzata di strumenti di osservazione dei filosofi della Grecia antica. E quale più chiaro esempio di non oggettività, di apertura verso risposte diverse, a partire da dati opinabili, di quello che le ho appena detto? Orbene, a questo punto la storia non è la colpevole di un racconto in cui chissà se debbo credere. E uno dei tanti casi in cui noi cerchiamo di conoscere, in questo caso il passato, nell'altro caso la realtà fisica, e non siamo in grado ovviamente di conoscerla in modo totale compiuto e definitivo, perché nulla in questo mondo accade in modo definitivo.

STUDENTESSA: Ma in questo senso allora come fa a diventare lo strumento per capire meglio il passato e quindi vivere il presente, in maniera più consapevole. Nel senso che comunque, lo ha detto Lei, non esiste una oggettività assoluta, e quindi abbiamo interpretazioni diverse anche adesso. Pensiamo al revisionismo, pensiamo all'uso politico che anche viene fatto della storia.

Questa domanda è bella, perché dimostra che il bisogno, evidentemente intimo, di ciascuno di noi, mi metto senz'altro con gli altri, coi presenti in questo bisogno, è un bisogno di assolutezza. No? Cioè o mi date un prodotto assolutamente risolutivo o non lo voglio. Questo è l'anticamera diciamo della sua domanda. Ed è apprezzabile, nel senso che indica che la spinta è sempre una spinta di conoscenza compiuta, una conoscenza soddisfacente. Però, una volta che sia assodato che si tratta di una conoscenza provvisoria e sempre in grado di essere migliorata, uno si rassegna a questo fatto e la pratica ugualmente, sapendo che l'alternativa è l'ignoranza totale, che è molto peggio. Naturalmente io sono, come dire, tra gli studiosi di storia, che meno prova disagio dinanzi alla parola "revisionismo". E' convinzione comune che "revisionismo" è di destra e "non revisionismo" è di sinistra. Questa è una stupidaggine. Il "revisionismo", poi, oltre tutto, non vuol dire negare i fatti. Ci sono alcuni pazzi - pochi - i quali negano che ci siano mai stati i campi di concentramento. Va bene, ma sono confutabili col fatto stesso della loro ignoranza e dell'esistenza di documenti inoppugnabili. "Revisionismo" è un'altra cosa. "Revisionismo" vuol dire che, ad ogni ondata di documentazione nuova, io capisco meglio e riaggiusto la ricostruzione che ho fornito. Quindi son due cose completamente diverse. E, in questo caso, il mestiere di storico è un rivedere continuamente - in buona fede sperabilmente, sulla base di una documentazione che si allarga e che però non va presa come un feticcio - le acquisizioni precedenti. In questo lavoro consiste un tirocinio di capacità critica, che serve comunque, direi, per fare un esempio ovvio, a leggere un giornale. Cioè, lei mi potrebbe rispondere: "Ma io non leggo il giornale". Ma anche se patisce il telegiornale, che è ormai diventato una specie di varietà, va bene, puntualmente lo deve interpretare. E capire perché un certo fatto ha uno spazio di pochi secondi e un altro fatto ha un ampio spazio e un altro fatto non appare per nulla e io lo apprendo da un'altra fonte. L'abitudine alla critica consente di capire il telegiornale. E dunque, se questa abitudine poi ha come scotto da pagare il fatto che è una critica sempre aperta, ben venga.

STUDENTE: Professore, scusi, ma per arrivare alla storia intesa come un sapere assolutamente oggettivo, almeno umanamente oggettivo, potrebbe bastare la conoscenza del fattore conoscitivo deformante, derivante dalle particolare influenze dello storico, e quindi che determinano la sua interpretazione?

In realtà non è quello il fattore deformante. Quello c'è, c'è sempre, ma è un malanno secondario, diciamo. Il vero fattore deformante è che i documenti sono casualmente accessibili. Anzi, facciamo un esempio, così ci capiamo meglio. Noi possiamo raccontare, con un certo fondamento documentario, abbastanza soddisfacente, per lo più epoche che si sono concluse, magari in modo traumatico, lasciando gli archivi a disposizione degli studiosi. Noi studiamo abbastanza bene la storia, per esempio, del nazismo, perché, nel suo crollo, i grandi archivi che il Terzo Reich aveva caddero in mano degli Americani, degli Inglesi e dei Sovietici, i quali hanno - e qui interviene, da capo, una manipolazione - messo a disposizione, in tutto, in parte, eccetera, questi documenti, i quali sono la base necessaria per parlare di quella età. Ma noi non riusciamo a raccontare in maniera accettabile, da un punto di vista della veridicità, la storia dell'Italia repubblicana. Io sono un po' più vecchio di voi, ma tutti abbiamo memoria del fatto che per una lunga fase della nostra storia repubblicana di questo cinquantennio, che abbiamo alle spalle, in Italia c'è stata una misteriosa incombente catena di stragi, di violenze, di attentati. Le vere ragioni di tutto ciò noi non le conosciamo in modo documentario. Le possiamo immaginare. Alcuni le congetturano in un modo, altri in un altro. Perché? Perché gli archivi di uno stato, vivente non sono a disposizione degli studiosi. Lei non può andare al Ministero degli Interni e dire: "Voglio vedere gli archivi del Viminale fino all'ultima carta e raccontare quello che è successo al tempo del cosiddetto golpe, non realizzato, ma fallito, di Borghese, nel 1970. Questo non lo può fare. Naturalmente gli stati moderni hanno anche l'abitudine di mettere ogni tanto a disposizione i documenti. Tutti dicono, per esempio, che una delle organizzazioni più misteriose sulla faccia della terra sia la C.I.A. che è una grande potente agenzia di informazione diciamo coessenziale alla politica degli Stati uniti d'America. Tutti i grandi stati hanno, un'agenzia di questo genere. La C.I.A. è così intelligente da mettere a disposizione una parte dei documenti del passato. Trent'anni fa, vent'anni fa. Però li screma, cioè li sceglie. Cioè il soggetto stesso che io dovrei studiare mi dice: "Tu puoi leggere questo, ma non questo". Naturalmente meglio quello di niente. Ma io so benissimo che questo, questa porzioncina più o meno ampia di documenti, potrebbe addirittura portarmi fuori strada. Ecco io vi ho descritto il vero problema, dinanzi al quale i veri studiosi di storia si trovano. Risposta: "Studiamo il passato più remoto, perché lì siamo tranquilli, nessuno ci viene a togliere i documenti". Non è vero, perché lì c'è stata una tale distruzione, dovuta al tempo, che la nostra ricostruzione è purtroppo, per definizione, unilaterale. Noi raccontiamo la storia delle Guerre del Peloponneso perché costui ha scritto un'opera che la racconta, però vorremo avere anche il racconto di un altro, di tutt'altra città, di tutt'altra provenienza. Non abbiamo nessuno storico spartano, per esempio, che ci dica i fatti di quella guerra. Lui era ateniese, era un uomo di grande equilibrio probabilmente, almeno lo dice di se stesso. Noi gli dobbiamo credere. Però non ci basta. E' come se della Seconda Guerra Mondiale noi avessimo soltanto le Memorie di Churchill, per esempio, che fu un grande statista, un grande scrittore. Però accanto a quelle memorie c'è una miriade di documenti che le mettono in crisi.

STUDENTESSA: Studia la Grecia che ha poche fonti, rispetto ad uno storico che studia il nazismo in un momento in cui le fonti poi sono troppe forse, c'è una pluralità di visioni o magari la storia recente di venti anni fa? Qual'è la differenza?

La differenza l'ha espressa bene un personaggio, che fu Segretario di Stato negli Stati Uniti d'America al tempo di Nixon negli anni Settanta, che si chiama Henry Kissinger, che era un signore - credo ancora noto -, che ha scritto un bellissimo libro, - e' un conservatore, uno che sa il fatto suo, come si suol dire -, Gli anni della Casabianca. Lui era uno storico, un professore di storia, che ha fatto il politico; come Tucidide, come Machiavelli. E dice, a un certo punto, nella Prefazione del suo libro, che lo storico della contemporaneità, trovandosi purtroppo dinanzi ad alcuni milioni di documenti, dovrebbe bruciarne la gran parte. Naturalmente è una battuta di spirito. Cosa vuol dire? Vuol dire che ardua è la fatica di colui che su poche fonti superstiti cerca di raccontare come è andata - ed è il caso della storia antica soprattutto, già per l'età medioevale è diverso -, così grave è quella fatica, altrettanto lo è quella di colui che si trova dinanzi a una massa sterminata, anche insignificante, di documenti. Perché? Perché le cose più importanti probabilmente non passano neanche da un documento scritto. Cioè noi possiamo avere gli atti di un'ambasciata, di un ministero eccetera, però poi la guerra arabo-israeliana del '73 si fermò per una telefonata che le due grandissime potenze del momento ebbero modo di farsi per arrestare il conflitto. E allora quella telefonata è un documento che purtroppo non è affidato ad una registrazione, men che meno ad una scrittura, che vale milioni di documenti utili. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che lo storico antico dovrebbe ciclicamente fare il mestiere dello studioso di storia contemporanea e viceversa. Perché le due cose, tutto sommato, sono educative, ci insegnano a ridimensionarci, a capire meglio, e se vuole, anche a non feticizzare il risultato. Come si traduce, sempre da capo, i poeti? Si scrivono sempre da capo poesie. No, non è che Petrarca e poi basta. Ogni poeta lirico vivente ha bisogno di scrivere una poesia. Si continuerà sempre a cercare di raccontare meglio il passato.

STUDENTE: Professore, come nelle precedenti puntate, abbiamo effettuato delle ricerche su Internet sull'argomento di cui si parlava. Mi sono divertito a cercare le posizioni di vari pensatori riguardo all'utilità e all'uso, della storia. Una posizione che mi è sembrata interessante è quella di un teorico dell'Ottocento che vede appunto nella continuità del pensiero umano l'utilità della storia. Inoltre, sul sito della Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, ho trovato al riguardo un aforisma di Duby, che appunto ci dice che: "La storia è sempre stata manipolata. Ma io penso che il dovere degli storici sia sempre quello di rettificare queste manipolazioni". Lei è d'accordo con questa affermazione di Duby?

Ma io non sono d'accordo su quasi nulla di quello che lei ha detto. Scherzo solo in parte. Riguardo alla continuità del pensiero umano, quello uno la può mettere alla prova anche studiando la matematica, la fisica, la pittura. E' la continuità e diciamo che forse, in rebus ipsis, nel fatto stesso che noi siamo qui, altri saranno qui fra due secoli. Quanto a Duby dice in modo simpaticamente assiomatico, tutto sommato, quello che il vecchio Ecateo di Abdera, che è un signore, vissuto molto prima di Duby, molto, ai tempi della rivolta ionica, VI° secolo avanti Cristo - e già rispetto agli Egizi era un bambino, gli Egizi erano molto più vecchi di lui - dice: "Io non voglio raccontare la storia che mi hanno tramandato, ma come è parsa a me", ed è l'atto della soggettività, del fatto che il singolo si propone come filtro rispetto ad un autorità consolidata, la storia dei re. Se c'è una morale di tutto questo nostro discorso è che non possiamo mai accettare quello che ci viene fornito dall'alto autoritativamente. Dobbiamo guadagnarci sempre criticamente o opponendo la nostra critica a quello che ci viene fornito, le nostre verità. Quindi una lotta perenne. Il sapere è un conflitto.

STUDENTE
: Professore, ma allora quand'è che finisce il nozionismo e comincia la storia?

Non c'è nessuna distinzione. Anzi, la parola nozionismo è una parola stolta, inventata dai pedagogisti, che sono delle simpatiche comunità di persone, che non producono, secondo me, utili suggestioni, perché "nozionismo" è un termine che vuole gettare il discredito sull'informazione concreta. Senza informazione concreta c'è la pura chiacchiera. Naturalmente "nozionismo" vuol dire che uno deve memorizzare centinaia di date? Non è vero, non è vero, perché intanto un dato è interessante in quanto io capisco come me lo sono guadagnato. A quel punto divento un essere vivente. Non è più una parola stampata in nero in una pagina che io detesto.

STUDENTE: Finora abbiamo parlato a lungo dei limiti della storia, limiti che per la storia antica son soprattutto di unilateralità delle fonti e per quella più recente di mistificazioni. E tra gli altri limiti c'è quello di una incompletezza della storia. La storiografia tradizionale ci ha offerto soprattutto una storia di battaglie. La mia domanda è in quali direzioni ci si può muovere per fare della storia più completa, senza arrivare con questo a quello che è un altro mito, forse a una semplificazione della storia a misura d'uomo, come volevano gli antichi, la storia specchio dell'umano. Però, in questo senso, perché la storia possa aiutare in modo maggiore a capire come è fatto l'uomo, anche viceversa capire l'uomo per capire la storia. E questa è un'altra questione.

Mah, la storia a misura d'uomo. Tanto forse bisognerebbe sgomberare il terreno da un equivoco. Lei ha certamente in mente - ma forse mi sbaglio, comunque azzardo che Lei abbia in mente, un racconto di Borges, di questo straordinario narratore argentino, I cartografi dell'Impero, i quali - nel romanzo di Borges - cercarono di fare una carta geografica perfetta di un immaginario Impero, che per essere perfetta era grande quanto l'Impero e quindi non serviva a niente, perché si estendeva quanto si estendeva l'area geografica che voleva descrivere. E' una metafora che vuol dire che la totalità delle conoscenze per l'assoluta oggettività è un'illusione, cioè finisce con l'essere la realtà stessa. Quindi togliamoci dalla testa questo risultato, che comunque è reso impossibile dai limiti pratici. La ragione per cui la storia è malvista dai potenti, è nel fatto che essa aiuta la gente a capire un po' di più. C'è un aneddoto raccontato dalle Cronache Cinesi, secondo cui l'imperatore, che costruì La Grande Muraglia, e quindi siamo nel III° secolo avanti Cristo, vietò la circolazione dei libri di storia e di poesia, su consiglio di un suo consigliere sciagurato, il quale portò questa motivazione: "Se i sudditi sanno che cosa succedeva sotto l'imperatore precedente, e poi sotto l'altro imperatore ancora precedente, possono fare un confronto". Quindi bando ai libri di storia. L'imperatore vigente è l'unico parametro possibile. Va bene? Questo è un aneddoto, più o meno veridico, che rende bene poi il concetto per cui, come dicevo prima, la storia non è amata dai potenti. Però, come tutte le cose ineliminabili, può anche essere corteggiata, per cui i potenti possono interferire nella sua costruzione. Quindi diciamo che è un mestiere difficile, criticabilissimo, ma indispensabile.

STUDENTESSA: Buongiorno. Prima parlava di interpretazione dei telegiornali, importanza dei mass-media. Allora io volevo sapere, se c'è un legame tra la storia contemporanea e i mezzi di comunicazione.

C'è un legame fortissimo. Basta pensare che gli Archivi della RAI sono tra le fonti più importanti per lo storico, purtroppo sono tenuti male.

STUDENTESSA: Quindi probabilmente fra cinquant'anni, per esempio, i ragazzi come noi studieranno maggiormente le cose che appaiono sui telegiornali o sui giornali o sugli altri mezzi di informazione.

Alla stessa maniera che noi studiando il secolo passato, e intendo il XIX°, anche se questo è già finito praticamente, devono scorrere collezioni e collezioni di giornali che sono i mass-media dell'epoca, ben sapendo quanto valgano, ma purtroppo non potendone fare a meno. No, non scherzo, quando dico che gli archivi della RAI saranno una delle fonti più importanti e speriamo che non siano poi così caduche, perché lei sa che è un materiale che può rovinarsi facilmente. Tanto tempo fa mi è capitato di fare, di curare una certa trasmissione sul cinquantenario della Repubblica Italiana e volevamo attingere agli Archivi televisivi, dei primissimi tempi della televisione italiana, c'era l'immagine, ma non c'era più l'audio. E quindi era una fonte poco, anzi per nulla utilizzabile. Bisogna rassegnarsi a questo. Come nelle biblioteche l'umido e i topi hanno distrutto un sacco di libri importantissimi, così anche questi documenti di tipo nuovo sono soggetti all'usura. Ma questo non significa che non si debbano desiderare, mettere a frutto, e così via. Anzi è uno di quei casi in cui la materia è così vasta che poi bisognerà trovare tecniche per selezionarla.

STUDENTE: Professore, scusi eh! Ma noi studiamo la storia, bisogna studiare la storia per non commettere gli errori del passato. Ma perché tuttora si commettono, cioè ancora ci sono guerre civili? Forse non è stata ben compresa, non è stata ben studiata?

Ma perché i fatti sono il frutto non soltanto dell'atteggiamento mentale delle persone, ma anche dei loro interessi. Tantissime persone, come si usa dire, sanno bene che cosa sarebbe giusto fare, ma fanno il contrario per ragioni concrete, interessi e così via. Stiamo banalizzando sia la formulazione che la mia, sono molto, diciamo, semplificatorie, però rendono bene il concetto. Non è lineare questo procedimento, ma questo vale anche per la predicazione religiosa, perché i principi delle grandi religioni del mondo sono dei principi sani, etici. E come mai poi non si traducono in opere e il crimine c'è ugualmente? Perché c'è un divario fra quello che è giusto pensare, che ci spiegano che è giusto pensare, e poi quello che concretamente si fa, appunto per una serie di ragioni empiriche, per lo più i grandi interessi egoistici. L'egoismo è una delle molle della storia umana. Mi pare che con questa triste conclusione potremmo anche porre un termine ai nostri pensieri. Il fatto che nonostante tutto - appunto, lei l'ha detto in modo un po' semplificatorio - non basta, è utile, ma non basta. Questa è, diciamo, la morale di questo mestiere.

STUDENTESSA: Professore mi chiedevo quale fosse la Sua visione personale della storia, se è ciclica o lineare, se veramente possiamo imparare qualcosa, perché comunque la natura umana rimane uguale a se stessa pur cambiando le circostanze oppure è assolutamente impossibile proprio perché nessun momento è uguale a un altro?

Alla fine, perché presumo che siamo verso la fine, la domanda più importante del mondo - mi permetto di chiosare -, anzi una domanda non solo importante, ma imbarazzante, perché se io fossi molto meno anziano di quello che sono direi: ma la storia è lineare, è un progresso perenne verso modi di organizzazione della società sempre più elevati. A grandi linee forse è ancora così, ma io lo credo sempre meno. Poi noi abbiamo in realtà uno spezzone piccolissimo, noi conosciamo la storia di qualche migliaio di anni, malissimo quella più vecchia, un po' meglio questa, mentre è una storia lunghissima, quella che abbiamo alle spalle, e forse anche quella che abbiamo davanti, ma non vedremo. Allora fare una regola da un campione così piccolo, forse è un azzardo. Col tempo, mi sono convinto che sostanzialmente l'ottimismo unilineare è fallace, cioè è un'illusione, però il ciclo, perché l'alternativa è il cerchio - come dice Machiavelli, per il fatto che si ripete - non si ripete mai uguale. Quindi tra le due alternative ce n'è una terza: che certo si torna, ma si torna in modo differente. E questo fa ben sperare.

http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=191
 
Top
Libertario
view post Posted on 19/8/2009, 16:40




Alla Storia preferisco le storie.
 
Top
EL_ROJO
view post Posted on 8/9/2009, 19:06




QUOTE (Libertario @ 19/8/2009, 17:40)
Alla Storia preferisco le storie.

Bello e affascinante...suggestiva prospettiva....a volte pero' è prendere o lasciare...non hai un bancone da cui scegliere o selezionare o considerare...


O meglio, devi proprio scegliere, selezionare e considerare...definitivamente.....sapendo che la concorrenza è in fallimento e non ti darà piu' merce edibile....


...diversamente, regressione e progresso potrebbero diventare equivalenti....e sai chi ne fa le spese in questi scenari, vero?
 
Top
Mààuro
view post Posted on 8/9/2009, 20:18




CITAZIONE (Libertario @ 19/8/2009, 17:40)
Alla Storia preferisco le storie.

Che frase antimarxista
 
Top
Libertario
view post Posted on 8/9/2009, 21:09




Il pluralismo è antimarxista (e, magari, l'"assolutismo" è di sinistra :huh: )?
Abbiamo "un destino da compiere" o da redistribuire molteplici beni tra simili?
E se tutto fosse "uno" che necessità avremmo di un "intellettuale collettivo" (di formare delle singole coscienze: senza la quale non vi è sinistra possibile, ma solo padroni)?
 
Top
Libertario
view post Posted on 8/9/2009, 21:26




... però non potremo neanche provare a capirci se io questa cosa non ve la dico:
siete sicuri che fuori di noi c'è "una realtà" (unitaria)?
Io vedo "solo" molteplici cose.
Di contro, ho per certo che la percezione unitaria di "tutte" le cose è solo di ciascun singolo essere vivente per se stesso (perché unitario per se stesso è ciascun corpo vivente) e questo non garantisce affatto che questa visione unitaria di tutte le cose sia la stessa per tutti i viventi: anzi, il contrario.
Quindi "la realtà" è una proiezione alle cose della propria individualità di ciascuno.
Che è tanto meno ugualitaria quanto più si assolutizza.
Perché, in questo caso, ciascuno ricomprende anche gli altri nella "propria realtà" (così come "sopprimendoli"a loro stessi).
 
Top
catartica
view post Posted on 8/9/2009, 21:32




CITAZIONE (Libertario @ 8/9/2009, 22:26)
... però non potremo neanche provare a capirci se io questa cosa non ve la dico:
siete sicuri che fuori di noi c'è "una realtà" (unitaria)?
Io vedo "solo" molteplici cose.
Di contro, ho per certo che la percezione unitaria di "tutte" le cose è solo di ciascun singolo essere vivente per se stesso (perché unitario per se stesso è ciascun corpo vivente) e questo non garantisce affatto che questa visione unitaria di tutte le cose sia la stessa per tutti i viventi: anzi, il contrario.
Quindi "la realtà" è una proiezione alle cose della propria individualità di ciascuno.
Che è tanto meno ugualitaria quanto più si assolutizza.
Perché, in questo caso, ciascuno ricomprende anche gli altri nella "propria realtà" (così come "sopprimendoli"a loro stessi).

image



:)
 
Top
Mààuro
view post Posted on 8/9/2009, 21:44




Ma ti droghi?

CITAZIONE (Libertario @ 8/9/2009, 22:26)
Quindi "la realtà" è una proiezione alle cose della propria individualità di ciascuno.

Anche se questa, come tutte le altre, è una proposizione priva di senso compiuto, si riesce a capire qualcosa; qualcosa in completa antitesi al marxismo.
 
Top
EL_ROJO
view post Posted on 9/9/2009, 09:14




CITAZIONE (Libertario @ 8/9/2009, 22:09)
Il pluralismo è antimarxista (e, magari, l'"assolutismo" è di sinistra :huh: )?
Abbiamo "un destino da compiere" o da redistribuire molteplici beni tra simili?
E se tutto fosse "uno" che necessità avremmo di un "intellettuale collettivo" (di formare delle singole coscienze: senza la quale non vi è sinistra possibile, ma solo padroni)?

...ma qui si parla di Storia...dalla Storia nascono verdetti collettivi e prassi collettive e insegnamenti collettivi che portano avanti.

Se alla Storia sostituisci le storie fai lo stesso esercizio dialettico ed ideologico di gente alla Pansa che ad esempio trafigge la resistenza partigiana per selezionare e analizzare, all'interno di essa, fatti e accadimenti e dare loro valore simbolico...creato per revisionare idee di popolo e di libertà che la storia ha conseganto a chi (o anche a chi) crede ancora ad una "sinistra" possibile...capace di emanciparsi e vincere i padroni.


Sulla presunta dicotomia pluralismo/assolutismo....io credo che, semplicemente, non vi sia sempre dicotomia...serve capacità di analisi delle fasi sociali e storiche per traghettare le idee....e certamente il materialismo dialettico di Marx è uno strumento prezioso...


....io penso pero' che la "sinistra" si sia nutrita troppo e troppe volte a sproposito, negli ultimi anni, di relativismo radicale...tanto da intercettare punti di non ritorno di nichilismo identitario (la nostra marginalizzazione politica ed ideologica è l'implicazione reale di questo processo di arretramento)....ma siamo sicuri che il relativismo sia l'unica possibilità per decifrare la realtà ed impostare un'azione o una prassi trasformatrice della stessa?

L'assolutismo puo' nascere anche dal basso, ad esempio da una rivoluzione che diventa ordinamento e pilastro costituzionale....non è sempre sbagliato difenderlo e preservarlo da spinte che, molto spesso, impersonificano la reazione.....anche se mascherate da suggestioni libertarie.

Edited by EL_ROJO - 9/9/2009, 12:14
 
Top
Libertario
view post Posted on 9/9/2009, 12:59




Da qualche parte ho già scritto che (fatte le debite proporzioni) non furono i comunisti a fare la Resistenza, quanto fu la Resistenza a fare i comunisti.
Nella mia firma, citando Gramsci, scrivo: "per comprendere occorre sentire". Nel nostro caso, occorre cioè essere chi paga il conto delle malefatte del potere. E poiché il potere (mirando sempre a superare se stesso) non si conserva ma si sublima (come sta avvenendo anche adesso sotto i nostri occhi). Talora, spinge le cose a tal punto da creare le condizioni per una frattura definitiva. Furono le stragi nazifasciste che fecero prendere le armi nella lotta partigiana a oltre 40.000 giovani. In quel momento furono provvidenziale la struttura, l'organizzazione, le idee comuniste. Ma l'ideologia da sola non basta. L'idea di potere (e di "assoluto") affascina le menti e continuamente si oggettiva sublimandosi in un'ide univoca, in un sol uomo, perché come in ciascuno per se stesso. Ricadendo su se stesso (per i guai che esso stesso combina) solo nel momento che, mostrando la sua vera faccia, produce il disincanto generale. Chi fin dalla sua nascita fu antagonista, come il Partito Comunista, può vantare i giusti meriti.
Ma, a mio avviso, la giusta chiave di lettura delle dinamiche non stà certo nella linearità del progresso. Bensì, a cose fatte, nella ricaduta nelle illusioni di un potere che "sopra agli uomini" possa fare il bene di tutti gli uomini. Ma questa è la presuntuosa illusione che ciascuno cova per se stesso, ed è il peggiore nemico della sostanziale uguaglianza umana che già sussiste a livello naturale. Ma sempre tradita di nuovo da quelle idee che si allontanano dai corpi. Perché la pluralità (e il senso della misura) è oggettivo prima che ideale, più che ideale, e tutte le idee che vogliano essere qualcosa di più e di meglio dei corpi a cui esse appartengano (e con essi muoiono) gli sono nemiche.
 
Top
29 replies since 13/4/2009, 23:42   821 views
  Share