Ottobre, ovvero i dieci giorni che sconvolsero il cinema

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Lavrentij
view post Posted on 19/11/2009, 15:58




Ottobre, ovvero i dieci giorni che sconvolsero il cinema

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di Andrea Parti *

su Aurora: Rivista Toscana d'orientamento Comunista, novembre 2007


In questi giorni ricorre il novantesimo della Rivoluzione d’Ottobre. Un simile anniversario è estremamente costruttivo all’avvio di una serie di considerazioni su quanto sia avvenuto e sulle conclusioni che da questo momento storico possono essere tratte. Tentare di approfondirne un filone artistico-comunicativo è fondamentale per rendersi conto della portata epocale dell’evento stesso e di quanto questo - al di là di superflue disquisizioni sulla buona o sulla cattiva fede - abbia realmente influito in settori strategici del quotidiano. Parlare dunque degli albori del cinema sovietico è un modo per esplorare una delle sfaccettature della Rivoluzione d’Ottobre. Significa analizzare uno dei mezzi principali legati al contesto di costruzione di una società che vuol essere al tempo stesso di alternativa e di superamento dei modelli convenzionali fino a quel momento conosciuti. I principali registi di orientamento comunista si posero il problema di che indirizzo artistico dare alla produzione già dal biennio 1922-23. Prima della rivoluzione, il cinema russo aveva appreso i suoi mezzi espressivi da arti affini come la pittura e il teatro e non era riuscito ad elaborare un proprio stile. Il confronto con alcuni capolavori della cinematografia estera, come Intolerance di Griffith, estremamente apprezzati sul piano estetico, lontani anni luce per quanto concerne la sfera dei valori proposti, portò gli autori a una riflessione artistica sulla linea da seguire. A questo proposito nacque un interessante dibattito che coinvolse riviste e intellettuali, sorsero manifesti d’intenti e dichiarazioni programmatiche. La questione principale era sull’atteggiamento da tenere riguardo al cinema prerivoluzionario. Gli intellettuali si spaccarono tra tradizionalisti, che intendevano proseguire sulla linea tracciata dai registi precedenti, e i loro negatori, fortemente decisi a dar vita a nuove idee, stili e forme di rappresentazione. I tradizionalisti basavano le loro tesi sul fatto che i gusti e i desideri delle masse sono costanti e cambiano soltanto per quanto concerne gli aspetti marginali. I novatori rifiutarono totalmente questa visione e miravano alla costruzione di un nuovo sistema di rappresentazione da costruire sull’eliminazione del precedente. I novatori, ideologicamente parlando, aderivano al Fronte di Sinistra delle Arti (LEF), un raggruppamento variegato e abbastanza indipendente di intellettuali che condividevano una serie di principi comuni. Tra i principali aderenti a questa corrente artistica figuravano futuristi come Majakovskij, una parte di costruttivisti come Rodcenko, produttivisti come Arvatov e Tatlin, studiosi di letteratura della scuola formale come Slovskij. I suoi principi estetici fondamentali erano condivisi da singoli artisti come Ejzenstejn, Dal 1923 al 1928, il Fronte di Sinistra delle Arti pubblicò la rivista LEF sotto la direzione di Majakovskij. Il principio fondamentale di questa pubblicazione era la realizzazione dell’Ottobre nelle arti. Come i futuristi, negava qualsiasi realtà artistico culturale in nome di nuove forme, rispondenti ai bisogni del mondo contemporaneo. Nello scontro in atto i tradizionalisti avevano un profondo vantaggio. I novatori avevano poco da proporre oltre ai manifesti e, inoltre, i tradizionalisti affondando a piene mani nel materiale prerivoluzionario – traevano l’esperienza necessaria a catturare i gusti dello spettatore. L’insuccesso dei film di propaganda del periodo della guerra civile proveniva, secondo alcuni fautori della tradizione, dal fatto che lo spettatore non era disposto ad accettare un’arte tendenziosa. I tradizionalisti evitarono quelli che la dirigenza bolscevica considerava come tematiche centrali. Non presentavano la realtà rivoluzionaria, non presentavano personaggi significativi del nuovo mondo, non cercavano il conseguimento di uno stile sovietico. Queste esigenze furono invece soddisfatte dal lavoro dei registi novatori. Tra i nomi più importanti figurano Vertov, Kulesov, Ejzenstejn, Pudovkin e successivamente l’ucraino Dovzenko. Questo gruppo non rappresentava un’unità ben definita e neanche una scuola artistica guidata da un metodo unico. Ogni novatore aveva una propria concezione creativa diversa da quella altrui, un proprio metodo e un proprio stile. L’unica linea guida comune era quella di concepire il cinema come strumento per raccontare, glorificare e costruire la società socialista . E’ il periodo di film come La madre, L’arsenale, La Terra, La Corazzata Potemkin e di molti altri capolavori della produzione sovietica. In un periodo simile il cinema ebbe un’importanza strategica, tanto da restar tema centrale nelle discussioni dei congressi del partito comunista dell’Unione Sovietica riguardanti la stampa e la propaganda. Nel marzo del 1928, la sezione di agitazione e propaganda del comitato centrale indisse la prima conferenza sulle questioni di cinema, a cui presero parte circa duecento delegati. Nelle discussioni e nelle decisioni relative alle relazioni trattate, furono messi in luce i compiti del cinema sovietico durante la rivoluzione culturale . Tra i punti più importanti emersi durante la conferenza c’è quello di dichiarare il cinema a strumento educativo: “Il cinema, “la più importante tra le arti”, può e deve occupare un posto di primo piano nella rivoluzione culturale come mezzo per un ampio lavoro educativo e di propaganda comunista, di organizzazione ed educazione delle masse intorno alle parole d’ordine e ai compiti del partito, per la loro educazione artistica, il loro riposo e il loro divertimento ”. Nel contesto di un intellettuale inserito come ingegnere del sociale, la relazione offriva l’opportunità di un cinema come arte di massa: “Il cinema esercita un’immensa influenza sullo spettatore; è l’arte più accessibile, la meno cara e la più evidente; è l’arte che ha il maggior numero di spettatori e che, per la sua stessa natura, è più diffusa tra le masse e ha un carattere più democratico. Attraverso le immagini agisce sulla coscienza dello spettatore culturalmente più arretrato. Non ha rivali per varietà e ricchezza di procedimenti formali e tecnici; la pellicola, una volta impressionata, può essere proiettata dovunque, dando allo spettatore opere altamente artistiche e tecnicamente brillanti ”. La conferenza diede una serie di direttive riguardanti il contenuto politico-sociale dei film fissandone questi obiettivi: mostrare i nuovi successi socialisti, indicare i nemici della società, indicare i compiti delle masse, chiarire gli avvenimenti storici e sociali in un’ottica marxista-leninista, educazione all’internazionalismo militante . Ultima disposizione, ma non meno importante quella che dice quanto segue: “organizzazione del tempo libero e dei divertimenti, facendo anche del cinema ricreativo una forza per organizzare in senso proletario i sentimenti e i pensieri dello spettatore ”. Tra i provvedimenti più importanti presi dal partito bisogna ricordare la risoluzione dell’11 gennaio 1929 del comitato centrale Sul rafforzamento dei quadri nel cinema. In questa risoluzione venivano sancite le misure per un incremento ulteriore di quadri comunisti all’interno del sistema produttivo cinematografico. Nel campo dei film a soggetto continuò nei primi anni della fioritura del cinema muto la vecchia lotta tra tradizionalisti e novatori. Ma la distribuzione delle forze opposte e le loro tendenze artistico-ideologiche non erano chiare e delineate come nel periodo precedente. I tradizionalisti avevano una buona esperienza produttiva e, facendo film di “cassetta”, riuscirono ad occupare una posizione dominante all’interno delle case cinematografiche. Ciò risultò un fattore estremamente positivo per quanto concerne la formazione dei giovani registi, ma pose al regime il problema del risultato ideologico dei prodotti. Con i novatori la rivoluzione aveva dato un nuovo contenuto all’arte e il cinema, come arte nuova, necessitava di regole all’avanguardia. Nella ricerca di forme nuove i novatori seguirono vie diverse, giungendo a risultati diversi. Alcuni come Vertov, fecero soprattutto ricerche sullo specifico filmico. I mezzi espressivi da loro individuati divennero patrimonio comune. Altri, come Ejzenstejn, raggiunsero un’elevata sintesi tra forme nuove e nuovo contenuto, non solo gettando le basi del cinema sovietico, ma dando il via ad un nuovo stile artistico. Molti tra i film sperimentali non risultarono redditizi commercialmente, perciò i novatori dovettero lottare negli stabilimenti non solo per sperimentare ma addirittura per concepire film del genere. La situazione variò con la fioritura del cinema muto, a partire dal 1925, periodo in cui si ebbe un’integrazione tra le due correnti. Se da un lato i tradizionalisti si orientarono verso posizioni più artistiche, dall’altro i novatori cercarono di adeguarsi anche alle esigenze dello spettatore e dotati dunque di una certa linearità e struttura a livello di personaggi. E’ un periodo a forti tinte ideologiche, è la stagione in cui si getteranno le basi per il realismo socialista. Col successo di alcuni dei loro film, si pensi ad esempio a La corazzata Potemkin, i novatori acquisirono maggior prestigio e autorità negli stabilimenti cinematografici e iniziarono a stabilire le linee guida ai nuovi cineasti sovietici. Lo sviluppo del lavoro intellettuale del cinema sovietico si definisce all’interno del rapporto avanguardia-costruzione del socialismo, come insieme di attività che riprendono e rielaborano le ipotesi ideologiche proposte dalle avanguardie. Il ruolo centrale del cinema nella diffusione del programma e del punto di vista del partito non è inizialmente segnato da un’autonomia e da una dinamicità teorica dell’effettiva avanguardia cinematografica. L’avanguardia cinematografica nasce e si sviluppa nelle strutture di produzione intellettuale ereditate da quella letteraria e artistica. Le forme teoriche, i modelli operativi, le nozioni, la stessa dialettica della trasformazione, trovano origine alla luce della teoria del rapporto sociopolitico complessivo dell’avanguardia con il processo rivoluzionario del comunismo di guerra. L’ideologia dell’arte come produzione e l’ipotesi dell’integrazione di questa all’interno del processo produttivo come sbocco socialista di questa forma di attività, acquistano per il cinema un ruolo teorico ed essenziale all’interno della struttura di funzionamento e del proprio statuto artistico produttivo. L’oggettivazione del lavoro intellettuale, tende a modellarsi sull’interpretazione del processo rivoluzionario che gli stessi settori del lavoro intellettuale d’avanguardia elaborano. La trasformazione del lavoro dell’artista, inserito nel contesto di un lavoro socialmente utile, porta ad una nuova ridefinizione dei contesti che lo collocherà nel tempio della nuova società, vale a dire la fabbrica . Se da un lato questo tipo di presa di posizione può risultare teoricamente un tentativo di sfida rispetto ai canoni tradizionali, condusse dall’altro l’avanguardia a svolgere un ruolo che talvolta si scindeva dall’autonomia e dalla dialettica nel processo di costruzione del socialismo. E’ simbolo di una subordinazione al discorso rivoluzionario sulla costruzione di una nuova società, in favore di una centralistica organizzazione pianificata delle mansioni sociali e del lavoro. Negli ultimi anni della Nep, il montaggio della vita è diventato organizzazione pianificata dei comportamenti collettivi, funzionalizzati alla produttività sociale, ricomposizione della forza-lavoro nei nuovi metodi di produzione che la tecnologia ha determinato . A conferma di ciò, uno dei principali teorici del periodo, Arvatov, aveva proclamato nel 1922: “Siate ingegneri, ingegneri del montaggio della vita quotidiana. La classe operaia non vuole illusioni ma forme reali scienficamente organizzate. Ha bisogno non di un’imitazione della vita ma dell’edificazione della vita ”. Non si pensi però che la mancanza di autonomia sia un fattore esclusivamente limitante al ruolo dell’intellettuale. In un paese come l’Unione Sovietica, il lavoro dei cineasti è un modo di coniugare volontà e pratica, sull’assunto di un preciso disegno di edificazione socialista della società. In una situazione culturalmente arretrata appena uscita dal feudalesimo zarista, l’intellettuale ha il compito di fornire alle masse gli strumenti più immediati alla comprensione della realtà. Precise tematiche e un linguaggio semplice sono categorie necessarie, ma che nel lavoro dei grandi registi sovietici riescono a convivere tranquillamente con un buon contenuto artistico. Un notevole esempio in questo senso è offerto da Ottobre, ovvero i dieci giorni che sconvolsero il mondo, gli esperimenti a livello iconografico di Ejzenstejn coesistono con un impianto narrativo facilmente comprensibile e invitano alla riflessione coinvolgendo anche lo spettatore meno preparato. Nella sua semplicità il cinema sovietico è un cinema che mira all’educazione su due livelli che si intrecciano continuamente a livello narrativo. Il primo fortemente emotivo, funzionale ad una presa di coscienza. Ejzenstejn elaborerà in questo senso la teoria del “Cinepugno”: un cinema a tinte forti, costituito da scene violente che devono portare lo spettatore a svegliarsi da una fase di torpore e ad esser pronto per la seconda fase. Una fase argomentativa nel senso marxista del termine, che analizza sinteticamente i rapporti di classe della società e che pone inevitabilmente di fronte alla prospettiva di rivoluzione e creazione di una società alternativa e di superamento di quella precedente. La lezione del realismo sovietico risulta dunque una risposta all’inserimento dell’arte e della teoria nel quotidiano. Allo stesso modo Lenin, novanta anni fa, unificò la teoria marxista con la realtà rivoluzionaria. Risposta necessaria ad un mondo da sovvertire dalle fondamenta.

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Testi consigliati per un maggiore approfondimento:
BERTETTO P., Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni venti in URSS, Milano, Feltrinelli, 1975
LEBEDEV N., Il cinema muto sovietico Torino, Einaudi, 1962
 
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