Camicie rosse - L' allegra banda garibaldina

« Older   Newer »
  Share  
Nick 81
view post Posted on 2/8/2010, 11:48




Camicie rosse - L' allegra banda garibaldina

PERUGIA . Garibaldi? Rifare l' Italia in camicia rossa? Fossi matto. Troppa retorica, celebrazioni, nefasti convegni. La gente ne ha le scatole piene. E poi, che eroe può esistere in un Paese cinico come il mio? Questo mi dicevo, meditando i sentieri possibili di un viaggio nel 2010. Poi è successo che li ho incontrati, i garibaldini; li ho visti sbucare a Perugia, dal fondo dello stradone, là dove l' Umbria si apre sulle colline di Dante, il monte Subasio e il Tupino che discende «dal colle eletto del beato Ubaldo». Li ho visti venirea suon di tamburi, sul crinale tra i palazzi trecenteschi; un rosso plotone di belle ragazze, vecchietti e bambini, a darmi una lezione di Risorgimento in musica. E ho cambiato idea. Rivedo la scena. Chiedo loro «da dove venite» mentre riscaldano gli strumenti accanto alla fontana vescovile, mi rispondono «Mugnano», e sfido chiunque a sapere dov' è questo paese di seicento anime a Est del Trasimeno. L' età va dagli ottantadue della grancassa ai dodici di un tamburino, tre generazioni e mezzo in campo. Quello di ottantadue ride: «Son vecchio, ma non rincoglionito». Vincenzo Gentili ha due figli nella banda; Pieretto Sacchetti, una figlia e tre nipoti; Giancarlo Panzanelli giù di lì. Allora penso: è questa l' Italia, non quella che compare nelle cronache tv. L' Italia è un' allegra banda garibaldina di cinquanta elementi espressa da un borgo di seicento abitanti, in mezzo all' Appennino della porchetta e della terza rima. Il viaggio comincia, senza che lo sappia, quando una pifferaia mi allaccia al collo un fazzoletto verde, mi ordina «marci con noi» e mi spedisce in prima fila accanto al labaro dei «Cacciatori delle Alpi», sezione Anita Garibaldi di Perugia. Reclutato con le buone o con le cattive, in mezzo a farmacisti, operai, infermieri, studenti, ingegneri, tassisti e avvocati. Capisco che sto per fare una cosa non su Garibaldi, ma alla garibaldina. Come viene viene, alla baionetta, e non fa niente se dopo il liceo non ho più letto di Risorgimento. Imparerò per strada. Riattaccano i tamburi e si va, con La bela Gigugin e ciò che fino a ieri mi è sembrata polverosa anticaglia si disvela un tripudio di gioventù. Scopro una forza vitale inconcepibile all' Italia di oggi. Perché non sapevo tutto questo? Cosa mi hanno insegnato a scuola? «Se per la patria mia parto domani/ piangere non vedrò la mia piccina / lei stessa metterà tra le mie mani/ un fiore rosso ed una carabina».È l' Italia cantabile dell' endecasillabo, non c' è ancora il lugubre tapum della Grande Guerra, la rancida tristezza della trincea, l' impotenza del soldato nel nulla della steppa. Si crede ancora che l' individuo possa cambiare il mondo,ei garibaldini lo cambiano, forse per ultimi. Il Risorgimentoè fatto da giovani: Mameli muore a vent' anni combattendo per la Repubblica Romana. Nievo, lo scrittore, uno dei Mille, sparisce in mare a ventinove, e se fosse vissuto sarebbe stato meglio di Manzoni. Mazzini nella Giovine Italia rifiuta iscritti sopra i trent' anni. Ora si marcia di soli tamburi, tra due ali di folla. Perché non ci dicono che l' Unità si fece in musica prima che con le armi? Quando nel gennaio 1949 Giuseppe Verdi diresse al teatro Argentina di Roma, città ancora papalina, la sua nuova opera La battaglia di Legnano, e dopo il coro possente «Viva Italia! Sacro un patto / Tutti stringe i figli suoi», l' eroe che aveva ucciso Barbarossa in combattimento morì baciando il tricolore, l' entusiasmo della folla fu tale che un soldato buttò sul palcoscenico la spada, la giacca e le spalline, insieme con tutte le sedie del palco,e il Maestro venne chiamato venti volte alla ribalta. «Addio mia bella addio / l' armata se ne va / e se non partissi anch' io / sarebbe una viltà». Le camicie scarlatte attaccano la più gentile delle canzoni di guerra dell' Ottocento, strofe che fecero male agli austriaci più di una battaglia perduta. A quel tempo non si mostravano bicipiti e mascelle. Bastava cantare, anche se si era in mille contro centomila, come quei matti che salparono da Quarto nel maggio del 1860. Pensate se Garibaldi avesse dovuto decidere l' impresa sulla base di sondaggi; non sarebbe partito mai e non avrebbe fatto la storia. Gli italiani di allora sapevano combattere anche per la libertà degli altri, andavano a morire in Ungheria, Serbia, Francia, Polonia, Grecia. Lo fecero, con spirito garibaldino, fino alla guerra di Spagna. Oggi non combattiamo più nemmeno per noi stessi. Antonio mi marcia accanto. È umbro, figlio di una terra anticlericale e antifascista, capitano d' industria, e ha capito cosa sto cercando. Sussurra amaro: «C' è una guerra in atto in Italia, e non è tra Nord e Sud e nemmeno tra destra e sinistra. È uno scontro tra... gli evasori e gli onesti. Tutto il resto è teatro». Sento che gli trema la voce: «Siamo alla resa dei conti. I furbi per vincere sono disposti a tutto. Anche a spaccare il Paese». Quando entriamo nel cortile d' onore della prefettura, prende da un leggio gli spartiti delle canzoni già eseguite, me li porge. Vuol dire: impara le parole della religione civile costruita dai nostri padri. E tradita dai farisei. Tra le autorità c' è un ragazzone di novant' anni, occhi da falchetto e fazzoletto al collo. È il generale Virgilio Ricceri, ex lagunare, ex partigiano, decano dei garibaldini d' Italia. Racconta il suo ingresso a Trieste il 26 ottobre del 1954, in un oceano di folla in delirio. Dice a bassa voce: «Abbiamo ancora bisogno di lui». Lui chi? Ricceri mi si para davanti e sorride: «Lui, Garibaldi. E chi altro sennò?». La banda attacca La Vergine degli angeli, dalla Forza del destino di Verdi. Di nuovo, crampi di nostalgia per l' energia vitale di un mondo perduto. Andiamo a pranzo sul Trasimeno in un ranch pieno di gente allegra. Focacce, salsiccia, frittura di lago, vino rosso Greghetto, fumo di grigliate. Vincenzo Gentili, tamburo maggiore: «Nel 1990 eravamo moribondi. La banda perdeva pezzi e ci siamo chiesti che fare. Avevamo una sola risorsa, i nostri bambini. Ne avevamo avuto una bella infornata, e così abbiamo pensato di reclutarli per salvarci, ma anche per salvare loro, che non finissero allo sbando. La famiglia è stata la nostra forza». Marilena Menicucci, presidente onorario: «Siamo gente allegra. Quando andammo a suonare a Caprera, sul traghetto per la Sardegna facemmo ballare tutti sul ponte». Per la notte sono ostaggio della confraternita, ho un divano letto a Mugnano, in una casa accanto al chiostro benedettino. Una notte umida, piena di lucciole, scende su questa terra di foreste dove si canta Bella ciao e Mira il tuo popolo senza avvertire conflitti. Marilena se ne va lasciandomi sul tavolo una dorata focaccia al formaggio. Trovo un libro del 1876, titolo I Mille, stampata in Genova, regio stabilimento Lavagnino. Carta giallina, profumo buono, fotografie di tutti i partecipanti all' impresa. Belle facce ardenti. Accanto ai nomi, le provenienze: Genova, Pavia, Bergamo, Ostiglia, Chioggia, Gorgonzola. La spedizione del 1860 fu un' epopea al novanta per cento padana. Leggo alla luce di un' abat-jour arancione. «Vogate! Vogate pure Argonauti della libertà; là sull' estremo orizzonte di Ostro splende un astro che non vi lascerà smarrire la via». E ancora: « Com' erano belli, Italia, i tuoi Mille! Belli, belli! Coll' abito e il cappello dello studente, colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro...». C' è la potenza del sogno che travolge ogni calcolo, ma, dietro, c' è anche l' amarezza per gli ideali traditi. Garibaldi non è solo quello trionfante, ma quello sconfitto dagli ingrati, quello che soffre per una plebe di «codardi, prezzolati, prostituti, sempre pronti a inginocchiarsi davanti a tutte le tirannidi». Il campanile batte mezzanotte, e trovo nel computer un altro potente segnale di partenza. Una lettera dall' Argentina, la terra di mio padre. È Alvaro, un parente che non sento da anni. «Querido Paolo, è tempo che ti penso. Ho letto che state demolendo Garibaldi. Lo chiamate ladro, terrorista, Bin Laden. Dite che noi della Pampa gli abbiamo tagliato un orecchio perché rubava cavalli, e che per nascondere quell' amputazione si è fatto crescere i capelli. Sono allibito che possiate credere a balle del genere. E poi non capite che demolire un eroe significa demolire la nazione?». Continua: «Para mi familia Garibaldi era mucho màs que un patriota italiano o un guerriero romantico: era un procer de la libertad. Nella mia infanzia non c' era famiglia che non cantasse in italiano la canzone Se è vero che è morto Garibaldi, pum! Garibaldi, pum! Garibaldi, pum!. E poi ricordo mis caminatas de la mano de mi abuelo gallego hasta la plaza Italia de Buenos Aires, dove c' era l' enorme monumento all' eroe. Pensa: per costruirla si fece una colletta e si raccolse il doppio del necessario. All' inaugurazione nel 1904 suonarono cinquanta bande musicali. Era uno dei padri della patria». «Ma voi italiani sapete che quando andò a Londra, ad aspettarlo erano in cinquecentomila e la carrozza fu schiacciata dalla folla? Sapete che in Russia c' è chi mette Garibaldi accanto all' icona di San Nicola?». Fuori il vento agita i cipressi, Alvaro continua: «Sai, ti ho scritto dopo i Mondiali di calcio perché la vostra uscita dal torneo mi ha fatto riflettere. Credo che il difetto di allenamento non c' entri. Di competitività ne avete anche troppa. Quello che è mancata è l' anima. Così ho pensato che esisteva un nesso tra questa crisi e gli schizzi di veleno contro Garibaldi. Forse siete solo un Paese che ha smesso di combattere». Notte piena di stelle, Vega risplende sopra i boschi. Penso che non è normale un Paese che demolisce il vincitore di tante battaglie e non i generali che persero ignomigniosamente a Custoza. Garibaldi e non Cadorna, cui dobbiamo Caporetto; e non D' Annunzio che di Cadorna cantò il sadismo mistico e le decimazioni dei fanti in trincea. Garibaldi, e non i generali che persero ad Adua in una sciagurata avventura coloniale. Guardo l' ora, in Argentina è ancora giorno, scrivo ad Alvaro della mia voglia di fare un viaggio partigiano in questa Italia che propone Mussolini tra i temi della maturità e va alla restaurazione peggio dell' Austria dopo Napoleone. Sono sicuro che esiste un Paese che resiste, migliore di quello che appare. Risposta: «Vai, companero, per la libertad y la victoria. Lascia perdere Calatafimi e il Volturno, vai nell' Italia di oggi. Metti una camicia rossa e cerca cosa è rimasto del mito. Ho visto un filmato sul capanno di Garibaldi a Ravenna, quello dove nel 1849 egli fu salvato dalla polizia austriaca. È un luogo forte, pieno di presenze. Ti lascio di lui quello che scrisse José Martì... me lo recitava sempre zia Enriqueta. Un corazon existe in Europa basto y ardiente, heroico, generoso... De una patria como de una madre nacen los hombres... La libertad patria humana tuvo un hijo, y fuè Garibaldi!». È fatta. Già l' indomani prendo il treno per il Nord, da Foligno a Ravenna senza cambi. Lascio che il viaggio si faccia da sé e comincerò dalla morte di Anita. Sedute accanto a me, due donne in carriera che sparano parole taglienti come rasoiate. Telefonate di lavoro, computer in canna, non un cedimento all' incanto del paesaggio che scorre al finestrino. Ripenso alle parole di Alvaro. Sì, siamo competitivi, ma abbiamo perso i Mondiali. Cerco di capire che lavoro fanno le due in tailleur, ma non riesco, il linguaggio è troppo astratto. Formule, messaggi trasversali, cura maniacale dell' apparenza, paura del silenzio, paura del pensiero disteso che nasce dall' onda delle colline. Sento che il mio sarà un viaggio in bilico fra incanto e disillusione, un' avventura piena di spine. Canticchio Mia bella addio a bassa voce, con un libro in mano. Le due mi guardano con fastidio. Chissà cosa accadrà quando metterò la camicia rossa.
PAOLO RUMIZ


http://ricerca.repubblica.it/repubblica/ar...aribaldina.html
 
Top
jacov
view post Posted on 3/8/2010, 10:45




Notevole...
 
Top
LokiTorino
view post Posted on 3/8/2010, 11:43




chi sente il brivido leggendo questo testo, è pronto per SXXI.

Chi non lo sente, non lo sentirà manco dopo aver letto 1000 libri.
 
Top
Omnia Sunt Communia
view post Posted on 3/8/2010, 12:18




C'è tutta una rubrica su Repubblica su Garibaldi: Camicie Rosse


Quella casacca alla Bud Spencer

Alla ricerca dell'abito di un garibaldino con cui girare l'Italia. Quasi una missione impossibile: erano tutti piccoli e malnutriti Tranne il vicentino Domenico Cariolato. Al sarto di Trieste non pare vero di dover cucire una bandiera tricolore: per la finale dei mondiali c'è addirittura chi ha ordinato quella spagnola. Siamo a corto di eroi nazionali


"UNA BANDIERA italiana?". Il sarto non crede alle sue orecchie. Dopo l'eliminazione degli Azzurri dai mondiali, il tricolore non lo chiede quasi nessuno. Peggio: per la finale c'è chi ha ordinato bandiere spagnole, e nella notte della victoria si son viste gimkane in rosso-giallo-rosso. Penso: in fondo non c'è niente di strano. A furia di picconare il Risorgimento, siamo talmente a corto di eroi che dobbiamo appaltare quelli degli altri. Trieste è luogo di regate e sfilate militari, e alla vecchia sartoria del porto il lavoro non è mai venuto meno. Ma la produzione è cambiata, lo vedo dal retrobottega: aquilotti bicipiti di austriaca memoria, alabarde triestine, caprette istriane, persino scacchiere croate, e pochissima Italia. Ma è proprio per questo che voglio il tricolore. Bello grande, di tre metri per due. Per il gusto del controcorrente.

Bandiera chiama vento, e due giorni dopo, quando vado a ritirare il vessillo, si sveglia la bora. E poiché nei viaggi c'è sempre qualcosa che somiglia alla provvidenza, ecco che l'amica Giuliana mi chiama per una breve uscita in barca. Già dopo mezz'ora passo davanti allo Yacht Club con a poppa il lenzuolo da battaglia grande come mezza randa. Per fissarlo abbiamo dovuto fare qualcosa di simile a una piramide umana. Puntiamo al largo in solitudine. Binocoli ci guardano. Non so cosa farò di quel bandierone. Intanto lo metterò in valigia, piegato come si deve. Le insegne sono una cosa seria. Quando i Romani furono annientati dai Germani a Teutoburgo,
Augusto mandò a cercarle tra i cadaveri. E non ebbe pace finché non le riportò a Roma.

"Grande bandiera, barca di destra", mi sfotte uno skipper con tricolore piccolo e malandato, che incrocio sotto il faro. Già, che ci faccio con quel panno esagerato? Son diventato di destra? Proprio io che detesto i nazionalismi, ho un cognome che finisce per zeta e covo nostalgie austriacanti? Non sarà che la politica s'è capovolta, non sarà che la destra si è fatta pappa e ciccia con chi butta nel cesso il tricolore, e ora tocca ai bastian contrari difendere unità, istituzioni, Risorgimento? Non che la sinistra sia di conforto. L'ho verificato ai primi di maggio, quando ho telefonato ai democratici in consiglio regionale. Ho detto: ragazzi, se per ricordare Garibaldi andate in aula in camicia rossa, giuro che vi sbatto in prima pagina. Proposta irresistibile per un partito d'opposizione oscurato dai media. E invece, due giorni dopo, m'è arrivato un curiale diniego. Ah, "tu sei l'emblema dell'ardimento / il tuo colore mette spavento", cantavano della loro divisa i garibaldini. Spavento al nemico, ovviamente. Oggi il rosso ardimentoso fa paura anche a chi dovrebbe indossarlo. Povero eroe, scaricato come da Simon Pietro. Dopo la Resistenza, anche il Risorgimento è out. A Verona c'è stato un convegno sui 150 anni dei Mille, roba con grandi nomi, ma l'università ha negato il patronato per codardia. Non si sa mai, con i padani al potere. Silenzio curiale anche lì. Al punto che il sindaco Tosi, Lega Nord, ha avuto tutto lo spazio per il bel gesto, e ha benedetto i relatori spiazzando i chierici tremebondi. Cosa siamo diventati? Nel '48 l'università di Pisa mandò un battaglione di 600 volontari alla prima guerra d'indipendenza e trecento ne morirono a Curtatone e Montanara; da allora i cappelli dei goliardi pisani hanno la punta mozzata, in segno di lutto. Erano matti o avevano rettori di un altro stampo?

Un disastro anche la ricerca della camicia. Rossa sul serio, come il sangue e la fiamma. Non rosso-cardinale, rosso-mattone, o rosso tendente al fucsia o al ciclamino. No, rosso esplicito, che non mente, che grida vendetta. Provate a trovarla. Impossibile. Uscita dalla produzione, dalla memoria, dall'immaginario. Capisco che dovrò farmela su misura. Ma dove trovare il modello? Nella teca di quale dei cento musei del Risorgimento d'Italia? Milano? Genova? Napoli? Ce ne sono nel più sperduto paese della Penisola. Magnifiche, spiegazzate, mangiate dalle tarme, con i bottoni in metallo fino a metà, il taschino, il ricamo sudamericano. Ma anche lì, missione impossibile. Scopro che sono tutte piccole, roba da bambini di 12 anni. Non è magnifico? Gli eroi che fecero l'Italia erano tappi malnutriti di un metro e sessanta. Era l'Italia che mangiava polenta e niente, l'Italia della pellagra e della malaria. Ma dove trovare una XL per me? Mi soccorre un libro con l'illustrazione di un luogotenente di G., grosso come Bud Spencer. Fatte le proporzioni, la mia taglia. Sotto c'è scritto: "Domenico Cariolato, 1835-1910, vicentino. Quattordicenne, combattè per la repubblica romana". Telefono al museo di Vicenza, il direttore conferma. La camicia è nella teca, "venga pure a prendere le misure". È fatta.

Ma ora devo cercare qualche libro, e anche qua è un vero disastro. Testi di Garibaldi introvabili. Più facile leggerne uno di Federico di Svevia. Idem per i libri dei suoi aiutanti. Cesare Abba? Forse dagli antiquari, mi dicono in negozio. Ippolito Nievo? Mah. "Camicia Rossa" di Alberto Mario? Tra due settimane. La casa editrice che ha ristampato "I mille" di Giuseppe Bandi ha un nome che parla da sé: Eretica. I capisaldi della memorialistica unitaria sono quasi pubblicazioni clandestine. C'è un coperchio di piombo sul pentolone del Risorgimento. Per disperazione gratto alla porta di Marina Rossi, una studiosa di storia che i libri li terrebbe anche sotto il letto. Apre la porta con uno scialle russo a fiori di nome platok e mi fa entrare nel suo fortino della memoria. Muraglie di volumi, incartamenti, foto, oggetti dal Sudamerica, dai Balcani, dalla Siberia. Mi presta "Da Quarto al Volturno" di Abba. Siam messi male, concordiamo. Quando eravamo piccoli ci imbottivano di retorica, ma ora è lo sfascio. Abolita la geografia, scomparse le cattedre di storia del Risorgimento, chiusi i musei, silenzio sulla questione sociale. Bolle il samovar, Marina serve un infuso caucasico. "A pensarci, c'è stato un momento in cui s'è riflettuto sull'unità: gli anni Settanta, tempo di manuali scolastici eccellenti". Ne apriamo uno, il Bietti. Che tuffo al cuore! Magistrali citazioni di Verga, Cavour, Bandi, Abba. Chiarezza su Mazzini, Cattaneo e Garibaldi, che cercavano il federalismo e non la sciagurata alleanza che ci fu, fra i borghesi del Nord e i latifondisti del Sud. Chiarezza sulla sconfitta delle camicie rosse, scaricati come reprobi dopo la conquista delle Due Sicilie.

"Quando le trombe suonavano all'armi / con Garibaldi corsi ad arruolarmi": così negli anni Cinquanta le patriottiche maestre di Trieste italianissima si sgolavano con noi scolari. Si sa, sulla frontiera, col nemico alle porte, si doveva stare all'erta. Il bianco era bianco e il nero era nero. Oggi invece parto, e non so quale Paese troverò.
 
Top
Nick 81
view post Posted on 9/8/2010, 19:52




La storia del partigiano Grozni

"È buio di novembre. E la notte del 21 novembre 1944 i fascisti dissero al russo che avrebbero lasciato aperta la porta della prigione. Ma era una trappola, e appena lui saltò il muro del giardino insieme a un altro partigiano, quelli fecero fuoco. Aveva 33 anni. Il corpo fu trovato in condizioni spaventose". Abbaiare di cani, gracidare nei fossi, un concerto di grilli tra la pianura e le falde d'Appennino. Che ci facciamo qui, luogotenente Cariolato, protettore e padrone della mia camicia rossa, in questa notte rovente sulla Via Emilia, davanti a una limonata fresca e un Gutturnio, dopo avere attraversato il Po? Che ci facciamo tra Solferino e la Linea Gotica, in questa terra di campi di battaglia che da secoli sputa pallottole e punte di freccia? Semplice. Siamo venuti a sentire una storia terribile, di quelle che valgono una deviazione. La storia del partigiano Grozni, che morì per seguire Garibaldi un secolo dopo. Vassili Pivovarov Zakarovic, combattente della libertà italiana. Per sentirla dagli ultimi testimoni viventi, questo 25 aprile, Eduard - il figlio che lui non ha mai conosciuto - ha valicato gli Urali e fatto 5 mila chilometri via terra. E ora siamo qui anche noi.
Luna incendiaria, nubi a brandelli, e Franco Sprega racconta nella veranda della sua casa solitaria di San Protaso a due passi dall'argine dell'Arda. È anche lui un uomo in guerra col dilagare dell'oblio. Da un decennio strappa agli ultimi testimoni pezzi di racconto sulla Resistenza, e stanotte ascolto le sue parole secche, accento in bilico tra Emilia
e Lombardia.

Vassili dunque, russo di Grozni in Cecenia. Ingegnere edile e soldato dell'Armata Rossa, viene fatto prigioniero nel 1941, al primo sfondamento dei tedeschi verso Est. La famiglia perde le sue tracce. C'è solo un bigliettino, trovato sulla linea ferroviaria a Sud di Pietroburgo. Dice: "Mi stanno portando in Europa". Vassili è comunista convinto. Ha perso il padre da bambino, gliel'hanno ucciso i "bianchi" nel 1922, crocefiggendolo sulla porta di casa. Ricompare in Italia dopo l'8 settembre, in Padania, al seguito dei nazisti che entrano in Italia. È uomo prezioso, sa maneggiare il cemento e la dinamite. Impara il tedesco, senza darlo a vedere, e un giorno sente le SS parlare di "garibaldini sui monti". Rossi anche loro, come i Mille. S'infiamma e decide di raggiungerli, Garibaldi è il suo mito. In Russia i contadini lo venerano, ne tengono in casa il ritratto. Ed è in Russia, sul Mar Nero, che Garibaldi marinaio ha sentito parlare per la prima volta di Mazzini e di libertà. Fugge, sale in montagna, si presenta al comandante Tobruk in val d'Ongina, dice di essere ingegnere e capace di fare la guerra. Una sarta di Vernasca, oggi 92enne, lo ricorda bene. Alto, capelli neri, baffetti, spalle ricurve e fisico notevole. Educato, distinto, affabulatore. Lo prendono nella 62a brigata Garibaldi, comandata da un montenegrino, Giovanni Grcavac, Giovanni lo slavo. "Giuan a slav", un'altra leggenda vivente.
Franco continua, stentoreo, mentre la notte rilascia profumi sconvolgenti. "Ci sono altri garibaldini russi nella sessantaduesima. Dimitri Nikoforenko, Josip Bordin, Ivan Nustej. Vassili sceglie il nome di battaglia di "Grozni" e compie azioni mirabolanti. Copre la ritirata dei compagni dopo le incursioni sulla via Emilia. Un combattente nato. Ma nel novembre viene ferito e catturato. Lo scortano a Fiorenzuola, nel municipio che nel frattempo è diventato posto di comando di tedeschi e repubblichini.

E qui la storia diventa mito. Il municipio con la cella di Vassili è dietro il macello e la casa del fascio; e la via si chiama Garibaldi. Ma non basta: a destra del portone, c'è il busto in marmo del generale per cui Grozni ha combattuto. Sotto c'è scritto: "Del lampo della tua spada / stupirono due mondi / La tua parola d'amore / l'ascoltarono i secoli". Anno 1883. Difficile che il russo non riconosca il suo generale, varcando la soglia fatale. Vassili non uscirà più da quel palazzo. I tedeschi vorrebbero scambiarlo con loro uomini prigionieri dei partigiani, ma i fascisti la pensano altrimenti. In cella con Grozni c'è Albino Villa, nome di battaglia "Sten", uno che sa troppe cose e ha troppo fegato. Lo vogliono far fuori e, per ammazzarlo, fingono di agevolarne la fuga, lasciando la porta aperta. I due corpi saranno trovati per strada, trasferiti a Castell'Arquato. Poi trafugati e sepolti in montagna. Insieme.

L'indomani andiamo a vedere il posto, a due passi dalla via Emilia, la "cuntrè drita" che accieca di luce bianca. La topografia è ancora quella, terribile, delle lotte sociali, della repressione e delle vendette. Franco sa tutto. Qui il tale fu arrestato, lì avvenne la tal delazione, lì si torturava, e lì in fondo vive ancora la vedova di un ufficiale morto a Mathausen. E la storia si intreccia continuamente con quella del secolo prima. Nel Comune, un ex convento cistercense, c'è la camicia rossa insanguinata di Riccardo Botti, ucciso a sciabolate sul Volturno.

Ma torniamo a Vassili. Nel dopoguerra gli storici della Resistenza si imbattono nelle sue tracce, ma non ne sanno il nome. E così, quando nel 1971 il ministero della Difesa gli conferisce la medaglia d'argento alla memoria, il titolare viene indicato col solo nome di battaglia. Grozni, appunto. Ma la notizia trapela nell'Urss, il figlio dell'eroe la apprende per caso dalla radio e capisce che quello è suo padre, non può essere che lui. Così, un anno dopo, quando il Comune di Fiorenzuola pensa di dargli la cittadinanza onoraria, ha finalmente un nome cui attribuirla. Negli archivi del municipio c'è ancora la delibera, che certifica la decisione unanime, il 25 novembre 1972. La figura del garibaldino russo è così nobile che ha votato a favore anche l'Msi, il partito dei post-fascisti.

Ma non c'è pace per Grozni. Le sue ossa scompaiono, e anche la lapide viene trafugata dal cimitero di Castelnuovo Fogliani. Forse è stato il ministero della difesa dell'Urss, ma non restano tracce della traslazione nel caos degli archivi sovietici. Anche la medaglia d'argento, messa in una teca al museo di Grozni, in Cecenia, scompare, tra le macerie della città, fatta a pezzi come Stalingrado nella guerra caucasica degli anni Novanta. Oggi di Vassili, combattente per la libertà d'Italia, non resta che una lapide, all'esterno del palazzo che vide la sua fine, e il destino ha voluto che quella lapide finisse accanto a quella di Garibaldi.

Che storia, eh, luogotenente Cariolato? Ma dimenticavo. Chiamatemi pure "111.796". È il numero della mia tessera dell'Anpi, che ho preso a Trieste alla partenza. Mai avuto tessere in vita mia. Ma stavolta che l'Italia non è più di moda, con questo viaggio che è un po' resistenza, non ci ho pensato due volte.

(09 agosto 2010)

http://www.repubblica.it/rubriche/camicie-...grozni-6166039/
 
Top
4 replies since 2/8/2010, 11:48   763 views
  Share