IL PACCO DI CASARINI, tratto da http://www.autistici.org/aranea/wordpress/?p=92

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lev917
view post Posted on 7/1/2011, 16:44




Il documento che i post-disobbedienti (Un “comune politico”: la sfida di un anno duro) ci hanno fatto trovare sotto l’albero di Natale merita qualche considerazione, in quanto – seppure firmato soltanto da Luca Casarini – appare come un’elaborazione collettiva finalizzata a motivare l’ennesima stagione di quella precisa area politica che, con epicentro il Nordest, negli ultimi decenni ha cercato di imporsi come superamento trendy della vecchia sinistra e riferimento delle opposizioni sociali, salvo poi farle annegare nel pantano della mediazione come avvenuto a Vicenza per la lotta contro il Dal Molin.
Un percorso di ricerca d’egemonia politica e culturale, peraltro, sempre collegato all’ambizione di autonominarsi e presentarsi come “rappresentanza dei movimenti” davanti ai partiti di turno o di moda (Rifondazione Comunista, i Verdi, l’Unione, il PD ed ora Sinistra e Libertà) coi quali mercanteggiare pacchetti di voti, spazietti di potere istituzionale, finanziamenti pubblici e possibilità di “auto-reddito” all’ombra dei municipi amici.
Le parole dicono molte più verità di quanto s’immagini, così è anche per questo documento e la prima cosa che salta agli occhi è la scomparsa degli immancabili riferimenti-mantra all’impero e alle moltitudini, a conferma che persino Toni Negri è stato accantonato perché troppo “ideologico”: d’altra parte non era agevole adattare la critica negriana, comunque di matrice operaista, alle più disinvolte derive della bio-politica o del “leghismo di sinistra” perorato proprio da Casarini appena due anni fa.
Al loro posto è stato assunto l’orizzonte del lessico, anzi, della “narrazione” di Vendola, ormai eletto ad interlocutore privilegiato del nuovo ciclo post-disobbediente che, dietro lo specchietto per le allodole della “ricomposizione”, persegue il proprio organico inserimento nel “nuovo” partito parlamentare. Infatti, tra le righe, si legge che non è più tempo di limitarsi “alla riproposizione né alla semplice critica dei partiti” e tanto meno rifarsi ai “miti degli altri”, alludendo al marxismo rivoluzionario o all’anarchismo.
Questi infatti sono retaggi anacronistici del secolo scorso ed è curioso osservare che le stesse argomentazioni si possono udire e leggere a destra, tanto che in un articolo -sconclusionato quanto sbirresco- contro la “sinistra estremista” pubblicato su Il Giornale il 30 dicembre, si concludeva sostenendo che “E’ il Novecento che non vuole passare la mano al futuro”.
Quante volte abbiamo abbiamo udito simili argomentazioni dagli stessi che oggi, per adeguarsi alla “fase”, non si esitano a ritirare fuori quanto era stato snobbato come ciarpame novecentesco, riscoprendo con toni pietistici l’esistenza degli operai e della fabbrica (oltre a quella di Niki), dopo che per anni erano stati eletti a soggetti decisivi della trasformazione sociale le partite Iva, i lavoratori immateriali o il terzo settore?
Basti ricordare come, in uno dei loro tanti stucchevoli giochetti semantici, la storica sigla del sindacalismo rivoluzionario e di classe IWW (Industrial Workers of the World) era stata riciclata come “Invisible Workers of the World”.
Ma il “documento” natalizio contiene altri passaggi interessanti e in particolare quelli che rivelano l’inquietudine per quanto avvenuto a Roma il 14 dicembre, quando migliaia di giovani hanno rivoltato lo scontato copione previsto per l’ennesima manifestazione anti-Gelmini, spiazzandone i registi politici (studenti del PD, post-disobbedienti, SEL). Atene in realtà brucia e spaventa gli apprendisti stregoni e, visto che il manesco servizio ordine non è servito se non a mandare all’ospedale un ragazzo, per cercare di riprendere il controllo della situazione ora si giudica inadeguata e schizofrenica la mobilitazione, facendo credere che ad incendiare un blindato, a rivolgersi al presidente della Repubblica e invocare la Costituzione, siano stati gli stessi soggetti.
Tra l’altro, se proprio si è interessati alla sindrome schizoide, bisognerebbe riandare proprio alle pratiche di questa camaleontica area politica (autonomi padani-tute bianche-disobbedienti-resistenti-invisibili-global-senza volto…) che in questi anni ha alternato la spettacolarizzazione del tafferuglio alla difesa della democrazia, la violazione dei divieti al dialogo con le istituzioni, l’apologia del riot all’assunzione di ruoli interni alla “governance”.
L’anno che ci attende sarà sicuramente duro, ma non sarà tenero neanche nei confronti di chi ha la presunzione di scrivere la storia.

Etciù Danke
 
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LokiTorino
view post Posted on 10/1/2011, 08:40




E questo è il documento di Casarini:

autore:
di Luca Casarini

Chi accusava Berlusconi di presiedere un governo che non fa nulla, e su questo basava la sua opposizione, dovrà ricredersi: magari il Cavaliere si occupasse solo degli affari suoi. In un colpo solo, dalla controriforma universitaria all’accordo di Mirafiori, l’esecutivo ha fatto piazza pulita di un’epoca. Per carità, non che il diritto allo studio prima fosse garantito, o che studenti e ricercatori non versassero già in tristi condizioni. Come pure gli operai di fabbrica, spremuti e ricattati dai salari più bassi d’europa, non se la passavano bene nemmeno prima di Marchionne. Solo che ora staranno peggio. Il lavoro cognitivo, della conoscenza e quello della fabbrica, con buona pace di coloro che hanno sempre tentato di contrapporli nello scontro tra generazioni, fluttuano sulla stessa base di precarietà funzionale. I diritti garantiti dalla costituzione, ora è fuori di dubbio, non garantiscono nulla fuori da quelli che sono i rapporti di forza: è su questo che dovremmo, tutti e ognuno dalle sue storie diverse, riprendere il cammino. Questo quadro ci consegna, senza tanti giri di parole, l’ineluttabilità della ricomposizione sociale. Se vogliamo essere all’altezza della sfida, storica, che abbiamo difronte, la precondizione è quella di rovesciare il paradigma della scomposizione su cui poggiano i pilastri del nuovo dominio della società. Dalla fabbrica all’Università, dalle lotte ecologiche e in difesa dei beni comuni alla cultura, la nostra sola possibilità è la costruzione di luoghi, pubblici e politici, che ci mettano insieme, che uniscano gli interessi, che ci facciano parlare l’uno dell’altro come parlassimo di noi. Ma questa è solo la precondizione, il minimo. Non è una questione di operai e studenti uniti nella lotta, ovviamente. Non riguarda nemmeno il coordinamento delle “resistenze”, che sommate, si sa, rischiano di essere la panoramica dell’impossibilità. La ricomposizione sociale è la pratica, e quindi la ricerca continua, di un “comune”. La precondizione ha bisogno di un atteggiamento nuovo, da parte di tutti. Dovremmo metterci nelle condizioni di poter valutare il limite e la sfida, di poter vedere nitidamente qual è l’obiettivo sapendone la distanza. Detto questo comunque, gli ultimi mesi ci restituiscono, impietosamente, il vero nodo che invece è ancora lungi dall’essere affrontato. Se il “comune sociale” è una scelta obbligata senza la quale nessuno può nemmeno pensare di provare ad aggredire la realtà, e ha a che fare con la lettura della nuova “composizione di classe”, sulle sue caratteristiche tecniche e sui suoi comportamenti, il comune “politico” è ciò che un’intelligenza e una determinazione collettiva possono provare a produrre come progetto. Marchionne e la Gelmini, le banche centrali e i patti di stabilità, non si possono sconfiggere senza un’idea alternativa di società. Non possiamo far leva solo sulle storture della democrazia liberale in crisi, come unica forma politica da dare allo scontro. Pena il fatto che difronte agli eventi, tumultuosi o pacifici che siano, ci dimeniamo tra apologia ed ipocrisia, perdiamo tempo su analisi sociologiche sulla violenza o non violenza, ci trastulliamo con esercizi retorici ed ideologici, buoni per i telepredicatori del nostro tempo. Qual è l’obiettivo degli scontri di piazza? Quale quello quello delle grandi e pacifiche manifestazioni? Quali sono le ragioni che ci portano a incendiare un blindato e il giorno dopo a parlare con il Presidente della Repubblica? O a richiamarci alla Costituzione, che pure è la stessa che garantisce a Marchionne la possibilità di fare quello che sta facendo? Se non vogliamo tutti diventare schizofrenici, e se non pensiamo che quello che accade nelle banlieues francesi o nel centro di Londra, oppure ad Atene o a Dublino, sia da ridurre a fenomenologia del moderno vivere nella metropoli, o dall’altro lato ad una mimica della presa del potere con il quale però nessuno saprebbe che fare, dobbiamo reinventarci la politica. E’ evidente che essa non può esaurirsi né alla riproposizione né alla semplice critica dei partiti. Chi si situa tra riproposizione e critica infatti, se conta solo su sé stesso e sulle proprie capacità narrative, già può vedere gli scogli su cui rischia di naufragare. Dopo Mirafiori, nemmeno la forma sindacato può più continuare ad essere immaginata com’era, nemmeno nella sua versione più “aperta” al sociale. Come facciamo ad imporre ad un capitalista globale di fare scelte diverse, nel momento in cui di forza lavoro disponibile ne trova dove vuole? Allo stesso modo i movimenti contemporanei, una volta abbandonati i miti degli altri, dall’insurrezione per il comunismo alla democrazia costituzionale del dopoguerra, si devono pure porre il problema di come riscrivere gli orizzonti della conflittualità sociale. Le rivolte, se rimangono generazionali e non diventano di popolo, se non assumono le caratteristiche di nuove rivoluzioni, ma bruciano nello spazio di qualche telegiornale, possono anche tornare utili, in questo momento, al potere. Tutto questo era a Piazza del Popolo. Questo portato di desideri e di problemi, di inadeguatezza e determinazione. Una complessità, che parla di un vuoto che dovremo colmare. Come facciamo a condurre tutti la battaglia Fiat, se le rivendicazioni non parlano di un nuovo welfare, di una nuova società per la nuova composizione del lavoro che vive oggi anche dentro le fabbriche? Come pensare la prossima fase di opposizione alla controriforma Gelmini, se non affrontiamo nel suo complesso il terreno della conoscenza, dal ciclo della formazione alla produzione culturale e informativa? E l’alternativa ecologica, il nuovo modello di sviluppo, chi lo dovrebbe attuare, lo Stato? Nel pieno della sua dipendenza da strutture miste sovranazionali? Il “comune politico” è nuovo programma e nuova organizzazione adeguata a realizzarlo. Anche la crisi del Manifesto va rovesciata: non è forse giunto il momento di considerare il giornale, e anche i mille altri media indipendenti, anche per coloro che li producono, un’articolazione fondamentale di questo “comune”, sociale e politico, che si organizza attorno ad un programma condiviso?
A Marghera, i prossimi 22 e 23 gennaio, discuteremo a questo livello, in tanti e diversi. Non può che essere l’inizio di un processo, non lungo per la velocità dei processi in corso. Di certo è finita la ricreazione, quel tempo nel quale ognuno si poteva trastullare a parlar male dell’altro o a fare banda per simpatia. Sarà un anno duro, e l’unico modo per affrontarlo è pensare seriamente di scrivere noi una nuova storia.
 
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BIXIO*CV
view post Posted on 10/1/2011, 10:40




Le sue critiche sono giuste in molti punti - solo che mi fa strano che certi concetti vengano proprio da lui!
 
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LokiTorino
view post Posted on 26/1/2011, 08:21




Dopo il Seminario/Meeting Uniti contro la crisi - L'ambizione dell'alternativa
di Luca Casarini, Gianni Rinaldini
25 / 1 / 2011

Dopo la straordinaria due giorni di Marghera, potremmo lasciarci cullare dalla soddisfazione collettiva che ha invaso i luoghi del meeting, e che ha accompagnato ognuno nel viaggio di ritorno verso casa. Non è mica una cosa da niente, di questi tempi, poter essere soddisfatti di una scommessa politica e culturale che per noi si chiama “uniticontrolacrisi”.

Ma indugiare troppo su “quanto è stato bello” non ci è concesso: sarebbe come premere il tasto della pausa e trasformare un film appena iniziato in una fotografia: bellissima, ma ferma. Sia chiaro, non foss’altro per tutti quelli che si sono dannati per far riuscire tutto al meglio, la prima cosa è essere contenti, felici, di come è andata. Il numero delle persone che sono state “attratte”, e non cooptate o obbligate, a partecipare, è un fatto importante. La qualità di questa presenza, espressa non solo attraverso quasi duecento interventi, ma anche e soprattutto in un modo di stare insieme fondato più sulla pazienza che sulle pretese, animato dalla disponibilità e non sul pregiudizio, ha creato il “clima”. E’ opera di tutti quello che è potuto succedere: di un modo di pensarla, prima, questa occasione di incontro, e di come di essa ci si è collettivamente appropriati poi. Se la “pratica del comune” è innanzitutto “esemplarità” e non linea o modello, va da sé che Marghera segna una tappa di riferimento fondamentale.

La formalità rituale che queste cose si portano dietro, anche se uno non vuole, perché è difficile e complesso trovarsi in tante e tanti e discutere, prendere delle decisioni, essere aperti ma non vaghi, includenti e non ambigui, ha avuto come correttivo la fiducia reciproca. Un’altra cosa che, come la pazienza, non assume mai la dignità di categoria della politica, restando confinata nel recinto delle cose che si dicono per intendere il contrario. A Marghera no. L’abbiamo tutti voluta usare, la fiducia, in dosi massicce, come precondizione per poterci parlare, di nuovo o per la prima volta. E’ l’intelligenza collettiva che ci dice di fare così: la situazione che stiamo vivendo impone di mettersi sul serio a costruire una storia nuova, e se non ne sentiamo l’urgenza, o se pensiamo che per farlo basti allargare le nostre biografie di partenza, allora non c’è nulla da fare: non incontreremo mai nessuno in mezzo alla folla, e continueremo a chiederci perché la gente non capisce, e le cose non cambino mai. Abbiamo, dopo Marghera, iniziato un percorso di accumulo che deve diventare amplissimo: sensazioni, contatti, scambi, confronti, questioni, obiettivi, linguaggi. Tutto che concorre a costruire un sentire comune dove il rapporto tra singolarità e collettivo sia non solo possibile, ma visibile. E come diavolo dovrebbe fare ad esserlo? Il comune non è solo il rifiuto della privatizzazione, ma anche una evoluzione che arricchisce il concetto di “pubblico”: il discorso che abbiamo cominciato è immediatamente rivolto dentro di noi, alla soggettività che contribuisce a formarlo, e fuori di noi, ad una società intera. Ha l’ambizione dunque di essere una proposta di alternativa. A Marchionne e alla Gelmini, alla privatizzazione dell’acqua e al nucleare. Certo. Alle ingiustizie che costruiscono, tragedia dopo tragedia, la crisi e che la rendono, nel suo incedere senza uscita, insopportabile. Certo.

Ma anche un’alternativa a noi stessi, a come abbiamo fatto e pensato fino ad ora, a come abbiamo subito e ci siamo arresi. Sta in questo il grande interrogativo che ci siamo posti sulla democrazia, che ha attraversato ogni riflessione, ogni dibattito. E sulla politica, che come la crisi, pretenderebbe di risolvere i problemi riproponendo i meccanismi che li hanno generati, invece che tentare di superarli. La pratica del comune, un comune sociale che vive dentro le modificazioni epocali del lavoro, del suo divenire vita messa al lavoro, del suo essere espropriato di ogni diritto e ogni garanzia, e che vuole definire un comune politico capace di dire di no come a Mirafiori e di dire di sì come per l’acqua bene comune, di tracciare degli obiettivi che disegnino la traiettoria di un’alternativa al capitalismo della crisi e dello sfruttamento, è anche, un’alternativa al modo di rapportarci con la rappresentanza e la sua crisi. Senza delegare niente a nessuno, semplicemente perché la posta in gioco è ben più alta e ben più seria.

La crisi di questo paese, la delegittimazione delle istituzioni, la crisi della politica, devono diventare l’occasione, anche qui, di costruire una nuova storia, dove il protagonismo sociale delle lotte non sia affidato a chi lo dilapida in cose già viste e già sconfitte. Ci siamo lasciati con appuntamenti importanti: primo fra tutti il 28 gennaio, a fianco della Fiom. Non diamo per scontato che tutto sia semplice, e inventiamoci, ognuno e tutti insieme, come fare a far sì che ogni piazza, ogni presenza a sostegno di questa battaglia, diventi anche un contributo al “comune”.

Per far questo ci vuole l’umiltà di chi non ha nulla da insegnare e molto da offrire, di chi ha chiaro che parlare e farsi capire da decine di migliaia di persone in carne ed ossa, non è la stessa cosa che discutere tra amici di vecchia data. Ma siamo certi che con questo atteggiamento, anche le fabbriche diverranno luoghi dove gli studenti andranno a fare assemblee, e all’università i delegati operai non saranno come gli ospiti stranieri. Siamo convinti che di riconversione produttiva in senso ecologico cominceremo a parlarne con chi lavora dentro le industrie che inquinano, come di mobilità sostenibile con gli operai dell’auto.

Ma niente è facile o già fatto, e tutto dipende da noi, sia che siamo dentro la Fiom o in un centro sociale, sia che militiamo in un’associazione ambientalista o contro il razzismo. Ecco, Marghera è già passata, non abbiamo tempo. Il film riprende e nessuno ha ancora visto il finale.

Gianni Rinaldini

Luca Casarini
 
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