Egypt Leaves the Internet

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LokiTorino
view post Posted on 28/1/2011, 08:20




Confirming what a few have reported this evening: in an action unprecedented in Internet history, the Egyptian government appears to have ordered service providers to shut down all international connections to the Internet. Critical European-Asian fiber-optic routes through Egypt appear to be unaffected for now. But every Egyptian provider, every business, bank, Internet cafe, website, school, embassy, and government office that relied on the big four Egyptian ISPs for their Internet connectivity is now cut off from the rest of the world. Link Egypt, Vodafone/Raya, Telecom Egypt, Etisalat Misr, and all their customers and partners are, for the moment, off the air.
egypt_outages.png

At 22:34 UTC (00:34am local time), Renesys observed the virtually simultaneous withdrawal of all routes to Egyptian networks in the Internet's global routing table. Approximately 3,500 individual BGP routes were withdrawn, leaving no valid paths by which the rest of the world could continue to exchange Internet traffic with Egypt's service providers. Virtually all of Egypt's Internet addresses are now unreachable, worldwide.

This is a completely different situation from the modest Internet manipulation that took place in Tunisia, where specific routes were blocked, or Iran, where the Internet stayed up in a rate-limited form designed to make Internet connectivity painfully slow. The Egyptian government's actions tonight have essentially wiped their country from the global map.

What happens when you disconnect a modern economy and 80,000,000 people from the Internet? What will happen tomorrow, on the streets and in the credit markets? This has never happened before, and the unknowns are piling up. We will continue to dig into the event, and will update this story as we learn more. As Friday dawns in Cairo under this unprecedented communications blackout, keep the Egyptian people in your thoughts.

Update (3:06 UTC)

One of the very few exceptions to this block has been Noor Group (AS20928), which still has 83 out of 83 live routes to its Egyptian customers, with inbound transit from Telecom Italia as usual. Why was Noor Group apparently unaffected by the countrywide takedown order? Unknown at this point, but we observe that the Egyptian Stock Exchange (www.egyptse.com) is still alive at a Noor address.

Its DNS A records indicate that it's normally reachable at 4 different IP addresses, only one of which belongs to Noor. Internet transit path diversity is a sign of good planning by the Stock Exchange IT staff, and it appears to have paid off in this case. Did the Egyptian government leave Noor standing so that the markets could open next week?

fonte
 
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LokiTorino
view post Posted on 28/1/2011, 11:55




Egitto, niente mai più come prima.

Erano circa le undici quando, ieri notte, le prime immagini dell’incendio sono circolate. A Suez ce l’avevano fatta: avevano dato alle fiamme il simbolo di trent’anni di oppressione, il quartier generale della polizia. Perché la notizia non circolasse, il governo egiziano non solo aveva fatto sospendere internet in tutta Suez, ma aveva anche tagliato le linee telefoniche fisse e mobili. Intrappolati, a Suez hanno combattuto tutta la notte rispondendo con le molotov ai lacrimogeni, mentre nella vicina Ismailyya si decideva di approfittare del “fronte Suez” per sorprendere i pochi poliziotti rimasti in città e scacciarli. Impossibile capire quanti, e come, sono morti nella notte fra mercoledì e giovedì, inutile chiedere dove finiscano gli arrestati; «hanno tagliato tutte le nostre linee telefoniche di assistenza legale», spiegava ieri dal Cairo Rami Raouf, attivista per i diritti umani. In mattinata ricominciavano anche Alessandria e il Cairo, dove una nebbia di lacrimogeni continua da giorni a circondare il Sindacato dei Giornalisti vicino a Talaat Harb; finchè nel pomeriggio, per la prima volta dopo tre giorni di silenzio, il partito al Governo, l’NDP, si è deciso a parlare. Ha fatto da portavoce il Segretario Safwat Sharif, dichiarando: «Vi capisco, il partito vi capisce e vuole quello che voi volete. La situazione è gravissima, sono preoccupato per i nostri giovani: certi gruppi politici li stanno usando e deviando». La famiglia più contestata del medio oriente però, i Mubarak, sono rimasti zitti. Il presidente Hosni è irraggiungibile da giorni e il figlio Gamal, che gli dovrebbe succedere a settembre, era presente alla conferenza ma non ha aperto bocca. Un segno di chiaro nervosismo, visto anche l’arrivo, ieri in giornata, dell’oppositore Mohammad el Baradei, tornato in Egitto per proporsi come presidente di un regime “di transizione” in caso di deposizione dei Mubarak. I nervi sono tesi per la giornata di oggi, decisiva secondo tutti. Alle undici italiane scatterà, almeno in teoria, l’ora della verità, in cui tutti gli egiziani saranno chiamati a sfilare per il paese. L’adesione finora è stata massiccia; «una coppia che conosco mi ha annunciato che verrà in strada. Sono banchieri. Mubarak è riuscito ad alienarsi davvero tutte le classi sociali», raccontava il blogger Hussam. «Scendo in strada perché non ho più di che vivere», urlava ieri un manifestante del Cairo, i capelli già grigi, «e cosa me ne importa se muoio gridando, tanto non so più come sfamare i miei bambini». E di fronte alla disperazione, la polizia comincia a dare segni di cedimento. Il regime ha già vietato sermoni del venerdì, ordinando la chiusura delle moschee, mentre il leader spirituale dei copti ha chiamato i fedeli ad astenersi dal protestare. Quel che è certo, è che la lira egiziana non può permettersi ulteriori crolli. Ieri la borsa ha chiuso in anticipo dopo che per il secondo giorno consecutivo la valuta del Cairo perdeva sette punti. Un argomento che di certo non lascia indifferente Gamal Mubarak e la sua più stretta cerchia di alleati, in controllo del mercato finanziario e immobiliare del paese. Anche per questo è improbabile che un cambio di facciata per il regime basti a eradicare la famiglia Mubarak dal potere: gli interessi in ballo sono troppi per permettersi un cambio di guardia. Intanto il “Vento tunisino”, come lo chiamano i pochi giornali arabi incensurati, ieri ha raggiunto persino lo Yemen. Ieri a San’a sono sfilati in diecimila chiedendo la deposizione del presidente “eterno” Salah. Se oggi gli egiziani dovessero farcela, sconvolgendo la storia della regione, niente in Medioriente sarà davvero come prima.
 
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rikycccp
view post Posted on 29/1/2011, 00:54




voi che ne pensate?
 
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Smersh
view post Posted on 29/1/2011, 13:38




Tutto il male possibile.
 
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LokiTorino
view post Posted on 29/1/2011, 15:13




non credo che a sto giro si possa parlare di una classica rivoluzione colorata
 
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rikycccp
view post Posted on 29/1/2011, 19:22




CITAZIONE (LokiTorino @ 29/1/2011, 15:13) 
non credo che a sto giro si possa parlare di una classica rivoluzione colorata

nenache io, anche perchè i paesi in questione erano "regimi arabi moderati", quindi garanti degli interessi israeloamericani, mi sembra però che ci sia la volontà occidentale di cercare di "stoppare" la protesta con dei governi che preservino comunque la situazione corrente
 
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Nick 81
view post Posted on 29/1/2011, 19:31




che poi se non sbaglio il governo di Mubarak nella questione di Gaza si era schierato dalla parte di Israele e contro Hamas chiudendo le frontiere e ostacolando i tunnel... almeno mi sembra di ricordare così
 
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BIXIO*CV
view post Posted on 29/1/2011, 19:48




E ora, chi salverà Mubarak?

di Giampaolo Calchi Novati

su Il Manifesto del 28/01/2011

Una volta era l'Egitto a dare il via alle svolte in Medio Oriente. I baathisti di Damasco e Baghdad guardavano al Cairo mettendo a disposizione dello stato arabo più forte il carisma storico delle antiche capitali del Califfato. Il giovane Gheddafi cercò la legittimazione come leader arabo all'ombra di Nasser riferendo - o inventando - la piccola frase con cui il Rais nel loro primo e unico incontro lo avrebbe designato a suo erede. Distrutto l'Iraq dalle fobie dei Bush e indebolita la Siria dal contenzioso sempre aperto con Israele, che costringe Assad suo malgrado a un «profilo basso», sono due paesi non-arabi e per certi versi eccentrici,Iran e Turchia, ad avere l'iniziativa nella regione.
A distanza di tempo, si può dire che il proposito di Obama di accreditare l'Egitto come il perno per la Grande Riforma del Grande Medio Oriente è fallito due volte: niente «politica nuova" e niente primato del Cairo. Il messaggio al mondo arabo e islamico del 4 giugno 2009 è rimasto un bel discorso da citare nei libri di storia. Forse, senza volerlo, ha persino danneggiato l'Egitto perché ha reso più evidente, e più penosa, la sua impotenza.
E ora chi salverà Hosni Mubarak? La domanda è senza risposta perché gli stessi centri che mostrano di volerlo difendere, gli Stati Uniti e i governi europei, sono nello stesso tempo una causa della sua debolezza, se non altro agli occhi delle schiere di oppositori in attesa che le belle parole sulla democrazia e i diritti siano finalmente messe in pratica. Il sostegno a Mubarak, come quello a Ben Ali ieri, è la prova del disprezzo che alla prova dei fatti la politica dominante in Occidente nutre per i popoli arabi, puntellando in tutti i modi come loro governanti personaggi di cui tutti conoscono benissimo i misfatti e che appena vengono rovesciati diventano dei paria. Il trattamento riservato da Sarkozy al presidente tunisino deposto ha aggiunto solo onta a onta alla figura del signore dell'Eliseo. È giusto in ogni modo che siano i popoli «minori» a risolvere i loro problemi con i pochi mezzi che lascia loro una politica asfittica anche per responsabilità esterne. Non si ripete di continuo che è meglio non dare troppa libertà a questi popoli per evitare che vincano gli estremisti? Anche il nostro ministro degli Esteri vede in Mubarak il baluardo insostituibile, salvo sdegnarsi, giusto un anno fa, per le rimostranze espresse dal governo egiziano dopo le violenze contro gli immigrati a Rosarno, tanto più ingiustificate, si disse, perché fra le vittime non c'erano egiziani. Ognuno può giudicare da sé il livello di un simile argomento.
Ancora più della Tunisia, l'Egitto, nonostante il declino di questa lunga «fine di regno», dispone in linea di principio di tutti i requisiti per risollevarsi. Per le sue dimensioni territoriali, l'esperienza dello stato e la maturità del corpo sociale, l'Egitto è il candidato naturale ad attirare i capitali del mondo arabo e del mondo in quanto tale. Il suo ritardo in relazione ad altri paesi della regione è difficile da spiegare. Certo, l'Egitto sconta le peripezie alterne di una politica estera che l'ha penalizzato sia quando è stata troppo ardita che quando si è ritratta in se stessa. La stessa «apertura» a Israele su cui Sadat giocò il suo potere e la sua vita non ha portato i risultati sperati. E qui intervengono le colpe altrui. Chi ha dato risalto alla «grandezza» dell'Egitto ha anche manovrato perché quella grandezza fosse tenuta sotto controllo e se possibile sminuita. La funzione stabilizzante di Nasser fu scoperta solo quando era troppo tardi: sconfitto senza scampo nella guerra del 1967, il Rais morì pochi anni dopo senza essersi mai ripreso del tutto da quella umiliazione, caricato, proprio per la sua posizione di leadership, dell'odissea negativa del popolo palestinese, culminata intanto nel «settembre nero», su cui spese le sue ultime energie. Anche nei travagli correnti dell'Egitto una delle cause principali è la questione palestinese, con la spina di Gaza conficcata nella sua stessa carne. Il Sudan è un altro smacco.
Probabilmente l'ultima parola, anche e soprattutto se la piazza dovesse continuare a farsi sentire, spetterà all'esercito. Sotto questo punto di vista, l'Egitto assomiglia più all'Algeria che alla Tunisia. Dal 1952 a oggi si sono succeduti quattro presidenti, da Neguib a Mubarak, tutti militari. Pensare al precedente di Atatürk è quasi obbligato, con o senza un altro generale o colonnello, anche se è un po' bizzarro rilanciare il kemalismo in Egitto mentre perde colpi in Turchia. È scontato che le prossime elezioni presidenziali saranno ancora sotto stretta sorveglianza. Un'altra mortificazione per una nazione e una società così ricche. Più della pur urgente riforma istituzionale, decisiva sarà alla fine la strada - strettissima nelle condizioni in cui si trovano a operare i paesi della periferia o semi-periferia - per coniugare la crescita con l'equità, che è il presupposto di ogni stabilità. Le liberalizzazioni varate nel 2004 non sono bastate a risanare l'economia: la crescita ha beneficiato ceti ristretti con poche ricadute sui servizi sociali e pochissima ridistribuzione.



www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20147
 
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AAKK
view post Posted on 29/1/2011, 20:01




A me da quanto ho capito (non troppo a dire il vero) sembra che questa volta la situazione sia più complicata.
Le proteste nascono da un reale malcontento popolare, contro governi allineati a usa-fmi,... la cui servile politica economica ha portato a grossi problemi sociali.
Però mi sembra anche evidente che gli Usa avessero previsto una situazione del genere e stiano cercando di indirizzare la situazione a loro vantaggio per ottenere un controllo ancora maggiore, abbandonando i vecchi alleati per dei volti nuovi. E non a caso stanno scatenando il potenziale mediatico, mettendo l'accento sui "dittatori", sulla lotta per la democrazia, i diritti umani violati... come se i problemi fossero dovuti ai dittatori cattivi e non alle politiche economiche ordinate dal WConsensus.
Se queste manifestazioni di piazza si fermeranno alla facciata, all'abbattimento personale, alle accuse al regime, serviranno solo a stringere ancora di più il cappio americano. Sinceramente mi sembra lo scenario più probabile.
Se invece si indirizzassero a sorpresa verso una via nazionalista, di indipendenza economica e politica dall'occidente,... allora penso che sarebbe un grosso passo avanti a livello mondiale.

Quindi mi sembra impossibile tracciare un bilancio in questo momento e/o prendere posizione sulla questione, che resta assai incerta.
 
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BIXIO*CV
view post Posted on 29/1/2011, 21:03




Onestamente in giro non riesco a trovare elementi per maggiori ragionamenti - non sembrano le rivoluzioni colorate di sempre - allo stesso tempo però il sig. Mubarak pare davvero lasciato stare da tutti - e la cosa è strana.
 
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Nick 81
view post Posted on 29/1/2011, 21:21




sentito al tg di la7 di stasera: nominato vicepresidente di Mubarak il capo dei servizi segreti vicino a usa e israele
 
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Smersh
view post Posted on 29/1/2011, 23:05




Il movimento di protesta in Egitto: i “dittatori” non dettano, obbediscono agli ordini

Michel Chossudovsky

http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=1165
 
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BIXIO*CV
view post Posted on 30/1/2011, 11:29




CITAZIONE (Smersh @ 29/1/2011, 23:05) 
Il movimento di protesta in Egitto: i “dittatori” non dettano, obbediscono agli ordini

Michel Chossudovsky

http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=1165

interessante - la fase di transizione gestita direttamente dagli Usa che mette e toglie i dittatori e gli oppositori... può anche starci visto l'articolo.
 
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Smersh
view post Posted on 30/1/2011, 12:19




This Is The Work Of The CIA, Mossad or other Intelligence Organizations



Designed to fuel the fire of dissent and create chaos in the region, this is typically how intelligence organizations work. They are not nice people and have a clear agenda. The uprising in Egypt is fueled by American NGOs which are connected directly to the CIA. They work to train activists with the necessary tools to disrupt government. The overall goal is to install a new government with greater acquiescence to World Bank and IMF policies which destroy the standard of living, cause hot money to leave the country, create unbearable inflation and rising food and energy prices with the long and short-term goals of stripping the country of resources and money.



While the uprisings in Egypt and Tunisia are comforting and exciting the end result will more then likely be similar to other color revolutions like those in Georgia, Bosnia, Serbia and elsewhere. Nothing changes or little changes for the civilian population and inevitably the standard of living decreases and prices rise while western powers usurp resources.



This is the work of Intelligence Organizations:



CAIRO (Reuters) – Looters broke into the Egyptian Museum during anti-government protests late Friday and destroyed two Pharaonic mummies, Egypt's top archaeologist told state television.



The museum in central Cairo, which has the world's biggest collection of Pharaonic antiquities, is adjacent to the headquarters of the ruling National Democratic Party that protesters had earlier set ablaze. Flames were seen still pouring out of the party headquarters early Saturday.



"I felt deeply sorry today when I came this morning to the Egyptian Museum and found that some had tried to raid the museum by force last night," Zahi Hawass, chairman of the Supreme Council of Antiquities, said Saturday.





"Egyptian citizens tried to prevent them and were joined by the tourism police, but some (looters) managed to enter from above and they destroyed two of the mummies," he said.



He added looters had also ransacked the ticket office.



The two-storey museum, built in 1902, houses tens of thousands of objects in its galleries and storerooms, including most of the King Tutankhamen collection.


 
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LokiTorino
view post Posted on 2/2/2011, 08:17




Qualche spunticino qua, ma il secondo che ho postato è molto meglio:

Modello pakistano per l'Egitto?

di Samir Amin

L'Egitto è cruciale nei piani Usa per il controllo del pianeta. Washington non potrà tollerare nessun tentativo da parte dell'Egitto di liberarsi da questa sottomissione, richiesta anche da Israele per poter continuare la sua colonizzazione di ciò che resta della Palestina. Questo è l'unico obiettivo di Washington nel suo coinvolgimento per una «transizione morbida». Solo per questo gli Usa possono considerare che Mubarak dovrebbe dimettersi. Il nuovo vice presidente, Omar Suleiman, capo dei servizi segreti, dovrebbe farsene carico. Quanto all'esercito, è stato attento a non unirsi alla repressione per salvaguardare la sua immagine.
È a questo punto che arriva ElBaradei. È più conosciuto fuori che in Egitto, ma a questo potrebbe ovviare velocemente. È un «liberale», non avendo alcuna idea di organizzazione e conduzione economica tranne per quello che è in corso, e perciò non può comprendere il problema che è all'origine della devastazione sociale. È un democratico nel senso che vuole «vere elezioni» e rispetto della legge (fermare gli arresti, le torture, ecc.), ma nulla di più. È possibile che possa far parte della transizione. Ma l'esercito e l'intelligence non abbandoneranno la loro posizione dominante nel controllo della società. L'accetterà questo ElBaradei?
In caso di «successo» ed «elezioni», i Fratelli Musulmani saranno la forza maggioritaria in Parlamento. Gli Usa ormai li considerano una forza «moderata», sottomessa alla loro strategia, che permetterà a Israele di continuare la sua politica di occupazione della Palestina. Inoltre i Fratelli sono totalmente a favore di un sistema di un mercato totalmente dipendente dall'estero. Nei fatti sono partner della borghesia «compradora». Hanno preso posizione contro gli scioperi dei lavoratori e le lotte contadine per mantenere la loro proprietà terriera.
Il piano Usa per l'Egitto è molto simile al modello pachistano: una combinazione di Islam politico e intelligence. La Fratellanza potrebbe compensare il suo allineamento a questa politica dimostrandosi «meno moderata» con i Copti. Potrebbe un tale sistema avere un certificato di democrazia?
Il movimento è quello della gioventù urbana, in particolare laureati senza lavoro, sostenuti da segmenti colti della classe media, democratici. Il nuovo regime forse potrebbe fare concessioni allargando ancora di più e a fatica le assunzioni nell'apparato statale. Certo le cose potrebbero cambiare se la classe operaia e il movimento dei contadini dovessero subentrare. Ma questo non sembra in agenda. Finché il sistema economico sarà regolato dalla «partita della globalizzazione», nessuno dei problemi sollevati dalle proteste potrà mai essere risolto.


L’Egitto sull’orlo del bagno di sangue

Beirut (Libano) 31 gennaio 2011

I media mainstream si sono appassionati alle manifestazioni in Egitto e predicono l’avvento della democrazia in stile occidentale in tutto il Medio Oriente. Thierry Meyssan contesta questa interpretazione. Secondo lui delle forze opposte sono in movimento e la loro risultante è diretta contro l’ordine statunitense nella regione.

Per una settimana i media occidentali hanno ripreso le proteste e la repressione che avvengono nelle grandi città egiziane. Tracciano un parallelo con quelle che hanno portato alla caduta di Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, ed evocano una ondata di rivolte nel mondo arabo. Sempre secondo, questo movimento potrebbe diffondersi alla Libia e alla Siria. Dovrebbe andare a vantaggio dei democratici laici, e non degli islamisti, continuano, perché l’influenza della religione è stata esagerata dall’amministrazione Bush e il “regime dei mullah” in Iran verrebbe emarginato. Così si compirà il desiderio di Barack Obama espresso all’Università del Cairo: la democrazia regnerà in Medio Oriente.
Questa analisi è sbagliato sotto tutti gli aspetti.
In primo luogo, le manifestazioni in Egitto sono iniziate da diversi mesi. I media occidentali non vi hanno prestato attenzione, perché pensavano che non avrebbero portato a nulla. Gli egiziani non sono stati contaminati dai tunisini, ma sono i tunisini che ha aperto gli occhi dell’Occidente su ciò che accade in questa regione.
In secondo luogo, i tunisini si sono ribellati contro un governo e un’amministrazione corrotti che si sono progressivamente distaccate dalla società, privando qualsiasi speranza a sempre più numerose classi sociali. La rivolta egiziana non è contro questo modo di sfruttamento, ma contro un governo e una amministrazione che sono così impegnate a servire gli interessi stranieri, che non hanno più l’energia per soddisfare i bisogni primari della loro popolazione. Negli ultimi anni, l’Egitto ha visto molti tumulti, sia contro la collaborazione con il sionismo, sia causati dalla fame. Questi due aspetti sono intimamente legati. I manifestanti evocano alla rinfusa gli accordi di Camp David, il blocco di Gaza, i diritti dell’Egitto sul Nilo, la partizione del Sudan, la crisi degli alloggi, la disoccupazione, l’ingiustizia e la povertà.
Inoltre, la Tunisia è stata amministrata da un regime poliziesco, mentre l’Egitto è un regime militare. Dico qui “amministrato”, non “governato” – perché in entrambi i casi si tratta di Stati post-coloniale, di privati di una politica estera e della difesa indipendenti.
Ne consegue che in Tunisia, l’esercito ha potuto interporsi tra il popolo e la polizia del dittatore, mentre in Egitto, il problema sarà risolto col fucile automatico tra militari.
In terzo luogo, se questo accade in Tunisia e in Egitto, sarà un incoraggiamento a tutti i popoli oppressi, non sono a quelli cui pensano i media occidentali. Per i giornalisti, i cattivi sono i governi che contestano, o fanno finta di contestare, la politica occidentale. Per quanto riguarda i popoli, i tiranni sono coloro che li sfruttano e li umiliano. Pertanto, non credo che vedremo gli stessi disordini a Damasco. Il governo di Bashar al-Assad è l’orgoglio dei Siriani: si schierò con la Resistenza e ha preservato i propri interessi nazionali senza mai cedere alla pressione. Soprattutto, ha protetto il paese dal destino serbatogli da Washington: o il caos all’irachena, o il dispotismo religioso alla saudita. Certo, è assai contestato in diversi aspetti della sua amministrazione, ma sviluppa una classe media e un processo decisionale democratico che vanno assieme. Al contrario degli stati come la Giordania e lo Yemen sono instabili, rispetto al mondo arabo, e il contagio può raggiungere anche l’Africa nera, il Senegal, per esempio.
In quarto luogo, i media occidentali scoprono tardivamente che la minaccia islamista è uno spauracchio. Bisogna ancora ammettere che è stata attivata dagli USA di Clinton e dalla Francia di Mitterrand negli anni ’90 in Algeria, ed è stato gonfiato dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre, e alimentato dai governi neo-conservatori europei di Blair, Merkel e Sarkozy.
Dobbiamo anche ammettere che non c’è nulla di comune tra il wahabismo saudita e la rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeini. Qualificarli entrambi come “islamici” non è solo assurdo, ma non consente di capire cosa sta succedendo.
I Saud hanno finanziato, in accordo con gli Stati Uniti, gruppi settari musulmani che predicano un ritorno a ciò che immaginano fosse la società nel settimo secolo, al tempo del Profeta Maometto. Non hanno un maggiore impatto nel mondo arabo degli Amish negli Stati Uniti, con i loro carretti tirati dai cavallo.
La rivoluzione di Khomeini non aveva lo scopo di creare una società religiosa perfetta, ma di rovesciare il sistema di dominio mondiale. Essa afferma che l’azione politica è un modo per l’uomo di sacrificarsi e di trascendere, e quindi che si può trovare nell’Islam l’energia necessaria al cambiamento.
I popoli del Medio Oriente non vuole sostituire le dittature poliziesche o militari che li opprimono, con dittature religiose. Non vi è alcuna minaccia islamista. Allo stesso tempo, gli ideali rivoluzionari islamici, che hanno già prodotto gli Hezbollah nella comunità sciita libanese, oramai influenza Hamas nella comunità sunnita palestinese. Potrebbe anche avere un ruolo nel movimento in corso, e ne ha già uno in Egitto.
In quinto luogo, senza offesa per alcuni osservatori, anche se stiamo assistendo a un ritorno della questione sociale, questo movimento non può essere ridotto a una mera lotta di classe. Naturalmente, le classi dirigenti temono le rivoluzioni popolari, ma le cose sono più complicate. Così, non sorprende che il re Abdullah dell’Arabia Saudita abbia telefonato ad Obama per chiedergli di fermare questo pasticcio in Egitto e di proteggere i regimi della regione, il suo per primo. Ma anche questo re Abdullah ha appena promosso un cambiamento di regime in Libano attraverso la via democratica. Ha abbandonato il miliardario saudita-libanese Saad Hariri e ha aiutato la coalizione dell’8 Marzo, comprendente Hezbollah, a sostituirlo da primo ministro con un altro miliardario saudita-libanese, Najib Mikati. Hariri è stato eletto dai parlamentari che rappresentano il 45% dell’elettorato, mentre Mikati è stato eletto dai parlamentari che rappresentano il 70% degli elettori. Hariri era sottomesso a Washington e Parigi, Mikati annuncia una politica di sostegno alla resistenza nazionale. La questione della lotta contro il progetto sionista è ora sovradeterminata rispetto agli interessi di classe. Inoltre, più che la distribuzione della ricchezza, i manifestanti stanno sfidando il sistema capitalistico pseudo-liberale imposto dai sionisti.
In sesto luogo, se torniamo al caso egiziano, i media occidentali si sono raccolti intorno a Mohamed ElBaradei che hanno designato leader dell’opposizione. E’ ridicolo. ElBaradei è una personalità piacevole, nota in Europa perché si ha resistito per qualche tempo all’amministrazione Bush, ma senza opporvisi completamente. Incarna la buona coscienza europea verso l’Iraq, che si era opposta alla guerra e che ha finito col sostenere l’occupazione. Tuttavia, oggettivamente, ElBaradei è l’acqua tiepida cui è stata assegnata il Nobel per la Pace che Hans Blix non ha avuto. E’ soprattutto una personalità senza eco nel suo paese. Esiste politicamente solo perché i Fratelli musulmani ne hanno fatto il loro portavoce presso i media occidentali.
Gli Stati Uniti hanno fabbricato degli oppositori più rappresentativi, come Ayman Nour, che presto sarà fatto uscire dal cappello, anche se le sue posizioni a favore del pseudo-liberalismo economico, lo squalificano riguardo la crisi sociale che il paese sta attraversando.
In ogni caso, in realtà, ci sono solo due organizzazioni di massa diffuse nella popolazione, che si sono a lungo opposto alla politica attuale: i Fratelli Musulmani, da un lato e la Chiesa cristiana copta dall’altra (anche se SB Chenoudda III distingue la politica sionista di Mubarak, che combatte, dal rais con il quale ha trattato). Questo punto è sfuggito ai media occidentali, perché hanno recentemente fatto credere al pubblico che i copti sono perseguitati dai musulmani, mentre erano per la dittatura di Mubarak.
Una digressione è utile qui: Hosni Mubarak ha designato Omar Suleiman quale vice presidente. Si tratta di un chiaro gesto volto a rendere più difficile l’eventuale sua eliminazione fisica da parte degli Stati Uniti. Mubarak è diventato presidente perché era stato nominato vice presidente e gli Stati Uniti fecero assassinare il presidente Anwar el-Sadat dal gruppo di Ayman al-Zawahri. Ha sempre rifiutato, fino ad ora, di nominare un vice-presidente per paura di essere ucciso a sua volta. Designando il generale Suleiman, ha scelto uno dei suoi complici con cui s’è sporcato le mani col sangue di Sadat. Ora, per prendere il potere, non solo si dovrà uccidere il presidente, ma anche il vice-presidente. Tuttavia, Omar Suleiman è il principale architetto della collaborazione con Israele, Washington e Londra pertanto lo proteggono come la pupilla dei propri occhi. Inoltre, Suleiman può contare sulle Forze di Difesa israeliane contro la Casa Bianca. Ha già fatto giungere dei cecchini e attrezzature israeliani che sono pronti per uccidere i leader della folla.

Il Generale-presidente Hosni Mubarak e il suo generale vice-presidente Omar Suleiman sono apparsi in televisione con i loro generali-consiglieri per far capire che l’esercito mantenere e manterrà il potere.

In settimo luogo, la situazione attuale rivela le contraddizioni del governo degli Stati Uniti. Barack Obama ha teso la mano ai Musulmani, e ha chiesto democrazia durante il suo discorso all’Università del Cairo. Tuttavia oggi, farà il possibile per impedire le elezioni democratiche in Egitto. Se può trattare con un governo legittimo in Tunisia, non può farlo in Egitto. Delle elezioni beneficerebbero i Fratelli Musulmani e i Copti. Designerebbero un governo che aprirebbe la frontiera di Gaza e libererebbe il milione di persone che vi è incarcerato. I palestinesi, sostenuti dai loro vicini, Libano, Siria ed Egitto, poi rovescerebbero il giogo sionista.
Qui va notato che nel corso degli ultimi due anni, gli strateghi israeliani hanno considerato un piano di ritorsione. Considerando che l’Egitto è una bomba sociale, che la rivoluzione è inevitabile e imminente, hanno progettato di promuovere un colpo di stato militare in favore di un ufficiale ambizioso e incompetente. Quest’ultimo avrebbe poi lanciato una guerra contro Israele e avrebbe fallito. Tel Aviv sarebbe stata in grado di riconquistare il suo prestigio militare e di recuperare il monte Sinai e le sue risorse naturali. Sappiamo che Washington si oppone fermamente a questo scenario, troppo difficile da padroneggiare.
In definitiva, l’impero anglosassone è rimasto ancorato ai principi ha fissato nel 1945: è favorevole alle democrazie che fanno la “scelta giusta” (quella della sottomissione), è contrario ai popoli che fanno “quella sbagliata” (l’indipendenza).
Pertanto, se ritenuto necessario, Washington e Londra sosterrebbero senza esitazioni un bagno di sangue in Egitto, a condizione che i militari che l’attuassero s’impegnino a sostenere lo status quo internazionale, sopra tutte le altre priorità.

Thierry Meyssan
Analista politico francese, fondatore e presidente del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica settimanalmente rubriche di politica estera sulla stampa araba e russa. Ultimo libro pubblicato: L’Effroyable imposture 2, éd. JP Bertand (2007).

Traduzione di Alessandro Lattanzio
 
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16 replies since 28/1/2011, 08:20   243 views
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